L’Unesco e la Gerusalemme plurale
Egregio Direttore,
ho letto ieri sera l’articolo Su Gerusalemme all’Unesco lo scontro è politico e quello di Derfner ivi citato, ma ho l’impressione che non colgano pienamente il vero difetto della risoluzione dell’Unesco.
Il punto, a mio avviso, non è il fatto che gli ebrei parlino solo di Monte del Tempio ed i musulmani di Nobile Santuario, ma che l’Unesco abbia adottato, per tutti i luoghi menzionati nella risoluzione, prima il nome arabo-musulmano, poi quello in uso in inglese e mai quello ebraico, neppure per il Kotel, che, in effetti, nemmeno è menzionato di per sé, ma solo in relazione alla denominazione della piazza antistante. Il che crea, nell’infiammato contesto mediorientale, la pericolosa impressione che l’Unesco consideri originali ed indigeni esclusivamente i nomi arabo-musulmani ed avalli la tesi di un’estraneità degli ebrei alla Terra d’Israele, fornendo, così, nuovi argomenti di propaganda antisraeliana e non favorendo certamente una ripresa delle trattative fra le parti.
D’altro canto, anche nel suo contenuto concreto la risoluzione è una lunga lista di accuse ad Israele e ad Israele soltanto, formulate, per di più, in parte senza tener conto delle circostanze (si vedano, ad esempio, i passi sulla restrizione all’accesso ai fedeli musulmani, su Gaza o sul muro intorno alla Tomba di Rachele), in parte in termini piuttosto generici.
L’effetto complessivo è di benzina sul fuoco, a parte ogni considerazione (non trascurabile) sulle specifiche competenze dell’Unesco e sulla loro utilizzazione tutt’altro che imparziale.
Quanto alla questione di quegli ebrei che desiderano pregare sul Monte del Tempio, mi sembra che, fermi restando i diritti dei musulmani, sia veramente contrario alla libertà religiosa ostacolare, spesso con molestie e violenza, perfino le semplici visite e negare anche la possibilità di recitare una preghiera a fior di labbra nel sito più sacro per l’ebraismo (ho letto che, per la tradizione ebraica, una preghiera, anche individuale, non può essere recitata in modo puramente mentale), anche se, per le vicende storiche, ora vi sorgono edifici di culto musulmani.
Con i più cordiali saluti,
Annalisa Ferramosca
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La replica dell’autore del blog Giorgio Bernardelli:
Gentile Annalisa Ferramosca,
grazie intanto per le sue osservazioni che mi permettono di chiarire meglio il mio pensiero sulla vicenda Unesco/Gerusalemme.
Nella sostanza concordo con lei sull’inopportunità dell’utilizzo in una risoluzione dell’Unesco del solo nome arabo per definire il luogo dell’Haram al Sharif/Monte del Tempio a Gerusalemme. Già nell’articolo esprimevo perplessità in proposito. E spiegavo come l’Unesco in questo modo finisca per non essere altro che l’ennesimo palcoscenico per un conflitto di natura solo politica.
Ma a me pare sia necessario domandarsi anche come mai si sia arrivati a questo punto. Perché i due temi centrali sollevati dalla risoluzione – la questione delicata della preghiera degli ebrei sul Monte e la gestione degli scavi archeologici nella zona circostante – non spariscono per il semplice fatto che nel testo, ambiguamente, non compare la parola Kotel.
Riguardo all’Haram al Sharif/Monte del Tempio il punto centrale della risoluzione è la richiesta del ritorno allo status quo adottato fino al 2000. Che vuol dire l’approccio pragmatico (e non in contraddizione con il rispetto del Muro Occidentale come luogo cardine per l’ebraismo) scelto da Israele stesso dopo il 1967: divieto della preghiera manifesta degli ebrei sulla spianata e riconoscimento del ruolo storico della monarchia giordana come Custode delle moschee. Questo status quo venne sancito espressamente anche nel trattato di pace firmato da Israele e Giordania nel 1994; oggi, però, viene nei fatti sempre più svuotato, come da tempo denuncia il re di Giordania Abdallah II, difficilmente catalogabile tra gli esagitati che vogliono cancellare la presenza degli ebrei in Israele.
È innegabile che negli ultimi anni i radicalismi intorno all’Haram al Sharif/Monte del Tempio siano cresciuti in maniera molto preoccupante. Ma è successo da entrambe le parti. Lei cita la preghiera individuale recitata solo mentalmente; molti di noi a Gerusalemme sono stati testimoni di episodi in cui lo spirito dei gruppi della destra religiosa ebraica che salivano al Monte del Tempio non era esattamente questo. E basta aprire un qualsiasi sito internet di questi gruppi per constatare quanto sia forte oggi in Israele la pressione per un’affermazione di «sovranità piena» sul Monte/Spianata.
Certo, la risoluzione dell’Unesco non risolve questi problemi: è una mera bandierina piantata in un consesso internazionale, che alla fine – come dice lei – contribuisce solo a infuocare gli animi. Ma l’unica strada per uscire da questo vicolo cieco sarebbe confrontarsi davvero sul volto plurale di una città come Gerusalemme; e su quali regole chiare darsi per rispettarlo davvero. Non è però questa l’aria che tira alla vigilia delle celebrazioni per i 50 anni della «riunificazione» del 1967.
Un’ultima osservazione: le tensioni intorno all’Haram al Sharif/Monte del Tempio non riguardano solo ebrei e musulmani. Sono strettamente imparentate anche con le provocazioni contro i cristiani al Cenacolo o con gli atti vandalici che si ripetono periodicamente contro le chiese della Terra Santa. Sono tutte manifestazioni della stessa chiusura in una Gerusalemme in cui non c’è spazio per l’altro, predicata apertamente non solo dai gruppi islamici più radicali, ma anche in alcune ben note yeshiva.
Personalmente sogno il giorno in cui gli ebrei saranno accolti come fratelli a pregare sul Monte del Tempio, accanto alle moschee. Ma sarà realizzabile solo se ci batteremo ogni giorno (e non solo all’indomani di risoluzioni discutibili) non per l’una o l’altra bandiera, ma per una Gerusalemme che sia davvero casa di tutti.