Davvero all'Unesco, nei giorni scorsi, hanno approvato una risoluzione che nega l'esistenza di un legame storico e religioso tra gli ebrei e il Muro del Pianto a Gerusalemme? Proviamo a chiarire i termini della questione.
Che cosa succede all’Unesco? Davvero il suo Comitato esecutivo ha votato una risoluzione in cui si nega l’esistenza di un legame storico e religioso tra gli ebrei e il Muro Occidentale (il cosiddetto Muro del Pianto) a Gerusalemme? E come mai all’improvviso sui media di mezzo mondo approda un dibattito così surreale?
Merita decisamente qualche parola di riflessione quanto sta accadendo intorno all’ormai famigerata risoluzione votata il 13 ottobre dal Comitato esecutivo dell’Unesco su proposta di sette Paesi arabi (Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan) con a tema la questione dell’Haram al Sharif, la Spianata delle Moschee a Gerusalemme; lo stesso luogo su cui – come ben sa chi conosce la Terra Santa – sorgeva il Tempio degli ebrei fino alla distruzione compiuta ad opera dei romani nell’anno 70 dopo Cristo. Risoluzione contestatissima da Israele, secondo cui il suo testo negherebbe l’esistenza di alcun legame tra il popolo ebraico e questo luogo così importante per la sua storia. E approvata dall’esecutivo in sede di commissione con soli sei voti contrari (Estonia, Germania, Lituania, Olanda, Regno Unito e Stati Uniti) e l’astensione di numerosi Paesi tra cui l’Italia.
Messa così – evidentemente – l’unica conclusione possibile sarebbe che buona parte del mondo improvvisamente è impazzito. Per questo vale almeno la pena di andare a leggere il testo integrale del documento (cui rimandiamo in fondo all’articolo) per capire quali siano i termini reali della questione. Intanto da una semplice lettura appare chiaro che la risoluzione votata dall’Unesco in realtà non affronta da nessuna parte la questione se il Muro Occidentale sia oppure no un luogo sacro per gli ebrei. Il documento affronta due questioni più specifiche: innanzi tutto il fatto che gruppi della destra religiosa ebraica sempre più spesso si recano su quella che oggi è la spianata delle moschee (e quindi non solo al Muro del Pianto), rivendicando il diritto di pregare sul «Monte del Tempio». Secondo: la gestione da parte delle autorità israeliane degli scavi e delle infrastrutture nell’area intorno all’Haram al Sharif / Monte del Tempio.
Certo, lascia perplessi che in un documento su un tema così delicato l’Unesco adotti una risoluzione che utilizza solo i nomi arabi (compreso al-Buraq per il piazzale del Muro del Pianto). Va però anche aggiunto che al punto 3 si afferma – almeno a parole – «l’importanza della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura per tutte e tre le religioni monoteiste». Inoltre – come osserva giustamente Larry Derfner – andrebbe ricordato che anche in Israele è ben raro trovare qualcuno che anziché «Monte del Tempio» chiami quel posto Haram al Sharif («il nobile santuario»), come lo chiamano i musulmani facendo riferimento esclusivamente al proprio luogo sacro.
Da queste precisazioni si capisce subito che lo scontro è tutto politico. E viene da chiedersi: che cosa c’entra un istituzione come l’Unesco in tutto questo? Purtroppo oggi c’entra. Perché – non occupandosi più nessuno del conflitto israelo-palestinese – lo scontro sta toccando in maniera sempre più pesante anche la cultura e i simboli religiosi. Sono anni, infatti, che le tensioni intorno alla Spianata delle Moschee/Monte del tempio/Muro Occidentale sono andate crescendo. Basta pensare – ad esempio – al famoso tunnel archeologico, alle campagne di scavi promosse nel vicino quartiere arabo di Silwan, ai progetti per la realizzazione di un nuovo piano sotterraneo nel piazzale del Muro Occidentale, alla presenza nella coalizione di governo di Netanyahu di un deputato come Yehuda Glick che invoca espressamente il ritorno sul Monte del Tempio. Certo, anche da parte musulmana in questi anni non sono mancate le provocazioni: gli scavi per la costruzione della moschea sotterranea nelle stalle di Salomone, le pietre lanciate sugli ebrei in preghiera al Muro del Pianto, le molotov sulla spianata, il ruolo ingombrante dei murabitun, i vigilanti arabi dislocati sulla spianata e dichiarati fuorilegge dalle autorità israeliane.
Ma il punto sta proprio qui: queste ambiguità e tensioni crescono perché da entrambe le parti manca una visione politica capace di mettere al bando gli estremismi e riconoscere il valore per l’altro di quel luogo. Siamo sempre allo stesso punto: i conflitti non si parcheggiano in attesa di tempi migliori. Se lasciati a se stessi, i conflitti degenerano. E allora va bene stracciarsi le vesti oggi. Ma dov’erano tutti quelli che protestano per lo «scandaloso voto dell’Unesco» quando le tensioni salivano? Che cosa pensano – di preciso – sulla pretesa dei gruppi più oltranzisti della destra ebraica di salire a pregare là dove oggi ci sono le moschee? Che cosa pensano delle restrizioni all’ingresso dei musulmani sulla spianata in occasione delle festività ebraiche o in particolari momenti di tensione? Che cosa pensano della situazione a Hebron, alla Tomba di Abramo, non a caso citata anch’essa nella stessa risoluzione dell’Unesco? E – viceversa – quelli che fomentano l’isteria su «al Aqsa in pericolo» – sono disposti a riconoscere senza ambiguità che il Muro Occidentale è un luogo fondamentale per l’identità ebraica che qualsiasi soluzione del conflitto dovrà preservare?
Nella risoluzione dell’Unesco i promotori chiedono un ritorno allo status quo del 2000, cioè a prima della famosa passeggiata di Ariel Sharon sulla spianata, che andava sostanzialmente nella stessa direzione di chi oggi rivendica il diritto degli ebrei a salire a pregare sul Monte del Tempio. Quel gesto fu la risposta a un’idea che il team di Bill Clinton aveva formulato poche settimane prima, nell’ultimo round di negoziati a Camp David: l’idea della sovranità per strati sull’Haram al Sharif / Monte del Tempio, con la superficie della spianata delle moschee al futuro Stato palestinese, e invece il sottosuolo e il Muro Occidentale allo Stato di Israele. Non se ne fece nulla perché il problema – in maniera errata – veniva impostato in termini di sovranità. Ma è stato finora l’unico tentativo che ha cercato per lo meno di considerare sul serio il significato religioso di quel luogo per entrambi. Potrebbe essere ancora un buon punto di partenza da cui rilanciare una riflessione in questo 2017 ormai alle porte, che segnerà i cinquant’anni della «riunificazione» di Gerusalemme sotto il controllo israeliano. Potrebbe esserlo. Se solo – all’Unesco come in qualsiasi altro posto – provassimo ad andare oltre le polemiche e le battaglie di bandiera per farci carico della Gerusalemme concreta e della sua incancellabile storia plurale.
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Queste riflessioni hanno indotto una lettrice a scriverci. Nella sezione La parola ai lettori pubblichiamo la sua lettera e la replica di Giorgio Bernardelli, autore di questo blog.
Perché “La Porta di Jaffa”
A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.