«Negli anni Ottanta in Vaticano eravamo tutti convinti che i cattolici in Armenia fossero scomparsi o che ne fosse rimasto un piccolo numero, senza sapere però se fossero tutti fuggiti all’estero e vivessero solo in diaspora. Erano ancora gli anni del regime sovietico e non c’era modo di viaggiare in quelle terre e verificarlo. Poi nel 1988 in Armenia avvenne una cosa terribile e inaspettata: un terremoto devastante che causò più di 20 mila morti. A causa del terremoto si aprì però una breccia e noi entrammo per portare i primi aiuti. Così dopo un anno scoprimmo, in modo del tutto inaspettato, la comunità dei cattolici di Armenia, che era stata dimenticata da tutti. Cattolici che erano riusciti a mantenere la fede nonostante il comunismo e l’assenza anche di un solo sacerdote che durava ormai da 60 anni».
Monsignor Claudio Gugerotti, oggi nunzio apostolico in Ucraina, dal 2002 al 2011 è stato rappresentante pontificio in Armenia, Georgia ed Azerbaijian. Grande conoscitore della storia e della cultura armena, negli anni Ottanta è stato testimone di una vicenda unica che ha deciso di raccontarci: quella del «ritrovamento» della comunità armena cattolica d’Armenia che usciva dal periodo cupo della persecuzione sovietica; e poi della sua paziente «ricostruzione», mattone dopo mattone. Papa Francesco il 25 giugno inaugura in Armenia la nuova cattedrale armeno-cattolica di Gyumri. Ma quarant’anni fa, come ricorda mons. Gugerotti, a Gyumri non c’era neppure un sacerdote.
«All’epoca ero un prete trentenne che aveva studiato armeno all’università e lavorava in Vaticano, alla Congregazione per le Chiese orientali – racconta il nunzio –. Monsignor Giuseppe Pasini, direttore della Caritas italiana, cercava qualcuno per andare a vedere gli esiti del terremoto appena avvenuto. Una cosa terribile, capitata proprio nella zona dove la storia diceva che un tempo viveva una comunità cattolica. Il cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli telefonò al prefetto della Congregazione Orientale dicendo che anche io dovevo partire per l’Armenia. C’era ancora l’Unione Sovietica e un viaggio simile non era scontato per un sacerdote che lavorasse in Vaticano. Partimmo comunque, dalla mattina alla sera: prima il volo Roma-Mosca e da lì in Armenia. Per più di un anno siamo andati avanti e indietro dall’Armenia. Il problema era che nel Paese vivevano persone molto corrotte e non trovavamo un modo decente di impiegare i 13 miliardi di lire raccolti dalla Caritas per il terremoto… Finché un giorno, ormai sfiduciati, abbiamo deciso di andare in una zona impervia di montagna assieme ad un giornalista di Verona, la mia città, che voleva mostrarci la costruzione di una scuola. Arrivati sul luogo, scesi dalla macchina, siamo stati circondati da persone che ci hanno chiesto: siete preti cattolici? Alla nostra conferma, pianti, commozione, a gran voce annunciano a tutti che siamo arrivati, aprono le chiese! Arriva addirittura il segretario del partito comunista locale e ci confessa che anche lui è cattolico… una vicenda assolutamente incredibile! Eravamo a 2.300 metri di altezza, nella regione di Gyumri, città dove sarà anche il Papa. Da qui l’ultimo sacerdote era stato deportato 60 anni prima. Loro però avevano continuato a pregare insieme la domenica, organizzando un rito basato su canti e preghiere, ponendo sull’altare la tonaca dell’ultimo loro sacerdote ucciso. In assenza di un prete, un anziano, laico era solito condurre l’assemblea e assieme cantavano inni antichissimi, quelli che le donne più anziane si ricordavano. Una comunità che era sopravvissuta tra mille peripezie: i cattolici per salvare le apparenze si mettevano d’accordo in segreto con il sindaco che era anche lui cattolico di nascosto. Il sindaco diceva: “Domani io vengo e vi chiedo di darmi le chiavi della chiesa; voi dovete dire che non me la date e io comincerò a minacciarvi di morte e voi mi direte: ‘Ti ammazziamo se tu non te ne vai di qui’ e non lasci in pace la nostra chiesa che vuoi demolire!” E io farò finta di andarmene per paura».
Un vero teatro della sopravvivenza, uno dei tanti episodi della storia difficile di una comunità che per decenni è dovuta sopravvivere da sola. Pazientemente, con l’aiuto e la collaborazione della Chiesa armena apostolica, abbiamo ricostruito il clero locale, mandando prima un prete, poi un altro che divenne il primo vescovo dei cattolici, ordinato da Giovanni Paolo II in San Pietro – racconta mons. Gugerotti –. Papa Giovanni Paolo II tutte le volte che tornavo a Roma mi chiamava perché gli raccontassi cosa avevo visto. I soldi raccolti dalla Caritas italiana per il terremoto vennero utilizzati per costruire un ospedale, prima ancora che arrivasse il primo prete cattolico, un ospedale che doveva curare tutti gratuitamente e che il Papa volle si chiamasse con il nome della sua enciclica Redemptoris Mater. Ancora per un miracolo trovammo i camilliani e le piccole sorelle di Charles de Foucauld che presero in carico l’ospedale».
Soggiunge mons. Gugerotti: «Quando sono andato ad accompagnare mons. Francesco Colasuonno che allora era nunzio per la Comunità degli Stati Indipendenti (ovvero l’ex-Unione Sovietica), la gente ci aspettava tutta con il rosario al collo; piangevano e dicevano al nunzio: “Non è possibile che lei sia il nunzio apostolico e che il Papa sappia che siamo vivi!” Lo hanno portato in trionfo, con sette uomini che lo tenevano in aria mentre lui mi diceva: “Sta attento che io non cada… che se cado per terra qui mi ammazzo!”».
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Leggi qui la prima parte del colloquio con il nunzio Gugerotti.