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Il caso controverso degli ultimi ebrei dello Yemen

Laura Silvia Battaglia
9 aprile 2016
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Il caso controverso degli ultimi ebrei dello Yemen
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu riceve una delegazione di ebrei yemeniti il 21 marzo scorso a Gerusalemme. (foto Haim Zach/GPO)

Uno degli ultimi gruppi di ebrei dello Yemen è giunto il 20 marzo scorso in Israele, accolto con tutti gli onori anche dal primo ministro. A Sanaa ne sono rimasti altri. C'è chi li vorrebbe negli Usa.


Nella seconda metà di marzo sono arrivati in Israele, in appena 17, con un rotolo prezioso e antichissimo della Torah. Il premier Benjamin Netanyahu li ha ricevuti e i media internazionali hanno dedicato loro una decina di approfondimenti – che sono davvero tanti per gli ebrei yemeniti – raccontando la coda lunga dell’operazione Tappeto volante (o Magic carpet in inglese), avvenuta tra il 1949 e il 1950, per favorire il trasferimento delle superstiti comunità ebraiche dello Yemen verso la terra di Israele.

Nel giro di poche ore sui social media israeliani sono rimbalzate infinite volte le immagini dei nuovi arrivati con in testa la tradizionale kippà, e delle loro donne in niqab (che vela quasi per intero il corpo – ndr), secondo i costumi che la comunità ha mantenuto in Yemen. I commenti non erano favorevoli a questi migranti sui generis: «Se vogliono mantenere i loro costumi se ne tornino indietro»; «Ma le loro donne sono ebree o musulmane?» e via discorrendo. Purtroppo i social hanno evidenziato la punta di un iceberg finora troppo sottaciuto: ossia la sostanziale difficoltà degli ebrei yemeniti ad essere accettati in Israele e uno dei motivi principali per i quali le restanti 40 persone della comunità hanno scelto di rimanere a Sanaa – dove vivono nel recinto dell’ex ambasciata statunitense, dietro un muro –, e la ragione per cui per anni hanno opposto sempre molta resistenza al trasferimento in Israele, dopo avere ascoltato i racconti di chi li ha preceduti negli anni Cinquanta.

Non si tratta però solo di difficoltà di integrazione. Sulle pelle degli sfollati yemeniti si gioca un pesante braccio di ferro tra il governo e l’Agenzia ebraica da una parte, ad incoraggiare il «ritorno» degli ebrei sparsi in altri Paesi del mondo, e e, dall’altra, la comunità ultra-ortodossa Satmar Hasidim, considerata anti-sionista e basata a New York. Secondo al-Monitor, autorevole pubblicazione online di analisi e approfondimenti dal Medio Oriente, Satmar Hasidim dal 1991 ha cercato di prevenire lo spostamento degli ebrei yemeniti in Israele, incoraggiandone invece il trasferimento negli Stati Uniti.

Dal racconto degli stessi emigrati, la comunità ultraortodossa di New York li avrebbe convinti adducendo come motivazione il fatto che in Israele non sarebbe stato possibile per loro mantenere intatta la loro fede e i loro costumi. Negli Usa, inoltre, sarebbero stati aiutati finanziariamente a stabilirsi nelle città di Monsey e Monroe (Stato di New York). La ragione dell’interesse di Satmar Hasidim per gli ebrei yemeniti riposerebbe sul fatto che essi non sono per nulla secolarizzati: sono gli unici ebrei al mondo ad aver mantenuto le più antiche tradizioni sefardite non contaminate (sono mizrahi) e per questo, secondo gli ultra-ortodossi, andrebbero preservati e dovrebbero essere protetti dal secolarismo in una comunità chiusa come quella di Monsey e Monroe.

L’uomo chiave della migrazione ebreo-yemenita verso gli Usa è rav Berl Yaakovovitz, che in 22 anni ha visitato gli ebrei yemeniti a Sanaa e a Raidah, nella provincia di Amran, ben 30 volte. Yaakovovitz rifiuta le accuse di anti-sionismo mossegli dall’agenzia israeliana per la migrazione e ammette di voler aiutare solo le famiglie ebree yemenite che desiderano migrare verso gli Usa, senza mai aver impedito la migrazione verso Israele. Per contro, l’Agenzia ribadisce che laddove la comunità Satmar Hasidim non sia riuscita a farli migrare verso New York, abbia invece incoraggiato la loro permanenza in Yemen. Rav Berl Yaakovovitz smentisce ad al-Monitor e aggiunge: «Noi semplicemente li aiutiamo a sopravvivere in Yemen: inviamo denaro; manteniamo una scuola maschile per 10 bambini e una femminile per 15 bambine; abbiamo programmi di aiuto per gli uomini sposati e diamo borse di studio ai ragazzi. Sono fondi nostri e lo Stato di Israele non c’entra nulla. Gli ebrei yemeniti sono liberi di fare quello che vogliono».

Nell’ottobre 2014 Terrasanta.net fece visita gli ebrei insediati nel recinto di Sanaa. Uno dei membri della comunità, Sulaiman Marrahabi, ci disse: «La mia vita è tra queste mura ma sogno di tornare nella mia terra. Temo però che farò la fine di molti parenti. Sono emigrati in Israele alcuni anni fa e non metteranno più piede qui, nemmeno per morire». Sulaiman è uno dei 40 yemeniti che vive ancora nel complesso di Sanaa e che si è rifiutato di lasciare la terra della regina di Saba. Nonostante la guerra, nonostante tutto.

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