L'ambasciatore Herny Morgenthau ha la penna felice. Leggere il suo diario di diplomatico statunitense a Costantinopoli tra il 1913 e il 1916 è anche un esercizio di buona lettura, ma soprattutto equivale a incontrare un testimone diretto e - per il ruolo che ricopriva - autorevolissimo del genocidio armeno che ebbe luogo in Turchia mentre infuriava la prima guerra mondiale.
Herny Morgenthau ha la penna felice. Leggere il suo diario di ambasciatore statunitense a Costantinopoli tra il 1913 e il 1916 è anche un esercizio di buona lettura, ma soprattutto equivale a incontrare un testimone diretto e – per il ruolo che ricopriva – autorevolissimo del genocidio armeno, di cui fu teatro la Turchia durante la prima guerra mondiale.
L’opera originale fu pubblicata, non senza difficoltà, nel 1918 in America, ma l’edizione italiana è di pochi mesi fa. Ed è un dono gradito che dobbiamo all’iniziativa dell’editrice Guerini e Associati (promotrice della collana Carte armene) e al lavoro di due ricercatori universitari che hanno curato il volume, corredandolo anche con un’interessante postfazione: Francesco Berti, studioso di Storia delle dottrine politiche all’università di Padova, e Fulvio Cortese (Istituzioni di diritto pubblico a Trento).
In un’epoca in cui il termine «genocidio» non era ancora stato coniato (lo sarà solo nel 1944), Morgenthau definì la «distruzione della razza armena» come l’«assassinio di una nazione». «Fu la voce isolata di Henry Morgenthau – ci ricorda in coda al diario il nipote Henry Morgenthau III – a richiamare l’attenzione del mondo sulle premeditate atrocità perpetrate dai capi dei Giovani Turchi e sulle complicità degli alleati germanici».
La famiglia Morgenthau, di origini ebraiche, era immigrata negli Usa dalla Germania quando Henry era ancora bambino. Il clan godeva di prosperità economica e, crescendo, il rampollo si affermò come avvocato di successo e imprenditore immobiliare. Ma la sua massima ambizione era affermarsi a livello nazionale con un incarico politico di primo piano. Fu uno dei più appassionati sostenitori, e finanziatori, del candidato democratico alla presidenza Thomas Woodrow Wilson. Quando questi conquistò la Casa Bianca nel 1913, Morgenthau sperava di ottenere un posto nel governo. Invece il neo-presidente gli propose di andare ambasciatore a Costantinopoli, ufficio per consuetudine assegnato a cittadini di stirpe ebraica (anche per via della sovranità che l’Impero Ottomano esercitava sulla Palestina).
Dopo un’iniziale ritrosia verso quella che concepiva come una sorta di discriminazione su base etnico-religiosa, Morgenthau accettò, sia pur malvolentieri, l’incarico. Lo svolse tuttavia con onore, al punto d’essere oggi onorato dalla Repubblica d’Armenia come uno dei giusti che si adoperarono per contrastare e denunciare il genocidio del secolo scorso.
L’ambasciatore statunitense giunse a Costantinopoli in un momento in cui l’Impero Ottomano era agonizzante e la nuova Turchia alimentava attese tra gli osservatori. Solo cinque anni prima il movimento dei Giovani Turchi era riuscito a imporre al sultano una Costituzione. Ben presto Morgenthau registrò nel suo diario la propria amara delusione: nel 1913, scrive, «i Giovani Turchi avevano cessato di essere una forza positiva di rinnovamento, pur continuando a esistere come macchina politica. I loro capi, Talaat, Enver e Cemal, avevano ormai abbandonato ogni speranza di riformare il loro Stato, ma in compenso avevano sviluppato un insaziabile desiderio di potere personale. Invece di una nazione di quasi venti milioni di abitanti che si sviluppava secondo linee democratiche, dotata di suffragio universale, intenta a porre le basi di un sistema industriale e agricolo fondato sull’istruzione e sull’assistenza sanitaria per un progresso collettivo, constatavo che la Turchia era un mero coacervo di schiavi ignoranti e attanagliati dalla povertà, governati da una minuscola e malvagia oligarchia, pronta a usarli per promuovere nel modo migliore i propri interessi personali» (p. 41).
Fu proprio confrontandosi da vicino con questi sanguinari oligarchi, e con il detestato ambasciatore di Germania, barone von Wangenheim, che il rappresentante diplomatico di Washington divenne testimone delle loro responsabilità – personali morali e politiche – rispetto al genocidio armeno. Un’immane strage che Morgenthau addebita alla volontà imperialista tedesca non meno che agli intenti di pulizia etnica dei turchi.
«Il popolo americano deve essersi ormai convinto – scriveva l’ambasciatore Morgenthau nel 1918, offrendo ai lettori le sue memorie ben prima dell’avvento al potere del nazismo – che la Germania aveva lucidamente architettato la conquista del mondo. Ma poiché si esita a fondare tale opinione sui fatti, ritengo doveroso che gli spettatori di quello che fu il maggior crimine della storia moderna (lo sterminio degli armeni – ndr) forniscano la loro testimonianza. Ho pertanto deciso di mettere da parte i miei scrupoli riguardo all’opportunità di rivelare ai miei concittadini i fatti di cui sono venuto a conoscenza in qualità di loro rappresentante in Turchia. Avendo acquisito queste informazioni in veste di funzionario del popolo americano, penso che esso abbia il diritto di venirne a conoscenza».
Il diario dell’ambasciatore, arricchito da una pregevole sezione iconografica, sarà senza dubbio una lettura avvincente per tutti coloro che nutrono interesse per la Storia del Novecento.