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Shu’fat, terra di nessuno

Beatrice Guarrera
22 gennaio 2019
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Shu’fat, terra di nessuno
Alcuni volti del campo profughi di Shu'fat. (foto Amber Fares)

A poca distanza dalle mura di Gerusalemme si trova il campo profughi di Shu’fat, dove regnano criminalità e degrado ambientale. Qui alcune ong hanno avviato varie iniziative sociali.


Pochi minuti di auto lo separano dal centro di Gerusalemme. Bisogna lasciarsi alle spalle le mura della città vecchia, il quartiere di Sheikh Jarrah e la French Hill, fino a che non si incontra un check-point che sbarra la strada, con tanto di tornelli e soldati. Oltre sorge il campo profughi di Shu’fat. Una volta superati i controlli, si è di nuovo a Gerusalemme.

Come è possibile? Si tratta di un’area sotto la giurisdizione della municipalità gerosolimitana, pur essendo un luogo dimenticato, un posto che per tanto tempo è stato «terra di nessuno».

Il campo profughi di Shu’fat fu istituito nel 1965 dall’Agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi (Unrwa), per offrire rifugio alle oltre cinquecento famiglie che risiedevano nel campo di Mu’askar nella città vecchia di Gerusalemme. Dopo la guerra nel 1967, l’area venne annessa ai nuovi confini della città ed è per questo che ancora oggi i residenti hanno i documenti d’identità di Gerusalemme. Quando nel 2003 venne costruito il muro di separazione tra Israele e Palestina, il campo di Shu’fat e le aree circostanti vennero tagliate fuori, isolando ancora di più gli abitanti.

Oggi circa 12 mila e 500 rifugiati palestinesi sono registrati come residenti nel campo di Shu’fat, ma alcune stime di Unrwa indicano in 24 mila il numero effettivo. Sono molti, infatti, coloro che per risultare residenti a Gerusalemme, stabiliscono il proprio domicilio nel campo di Shu’fat, anche se poi preferiscono vivere altrove in Palestina. La vita nel campo non è facile, visto il degrado ambientale e il generale disinteresse della municipalità israeliana.

La mancanza di forze di polizia favorisce anche la criminalità, tanto che si dice che il campo di Shu’fat sia uno snodo per il traffico di droga tra Israele e Palestina.

In 203 ettari vivono migliaia di rifugiati palestinesi ai margini della società. Lydd, Gerusalemme, Ramla, Gaza e l’area a ovest di Hebron sono i loro luoghi d’origine, da cui vennero cacciati in seguito alla guerra del 1948. Di quel passato oggi non resta loro più nulla, tranne che una carta che li identifica come gerosolimitani e un posto in questo quartiere-ghetto affollato e degradato.

Nel campo i bambini giocano scalzi e dalla finestra le donne vigilano guardinghe sulla presenza di eventuali sconosciuti. Da un megafono si annuncia il passaggio di un piccolo camioncino che vende frutta e pomodori, come in un qualunque quartiere popolare; agli angoli delle strade grossi cumuli di spazzatura che nessuno si premura di raccogliere. Ogni tanto qualcuno appicca il fuoco a queste discariche e cielo aperto. Un odore pestilenziale che ammorba l’aria.

Nonostante le difficili condizioni, ogni mattina si ricomincia: c’è chi attraversa l’affollato checkpoint per andare a Gerusalemme e chi invece trascorre gran parte del tempo chiuso in quel microcosmo che vive di regole proprie.

Per poter offrire agli abitanti una vita normale e favorire l’aggregazione, Unrwa ha istituito nel campo un comitato popolare e ha costruito tre scuole, un centro per le donne, un centro per i giovani, un centro per i bambini e un centro di riabilitazione. C’è ancora molto da fare e, per questo, è fondamentale l’intervento di enti dall’esterno. Come nel caso del progetto lanciato ad aprile 2016, finanziato dall’Unione europea e affidato da Unrwa alle ong Cesvi e Overseas, con la collaborazione delle organizzazioni comunitarie del campo.

«L’obiettivo del progetto è migliorare le condizioni igienico sanitarie del campo, attraverso una migliore gestione dei rifiuti – spiega Marco Verber, ingegnere ambientale del Cesvi –. Entro luglio 2019 vogliamo fornire di bidoni tutti gli edifici e installare dei sistemi automatizzati per la raccolta sui piccoli trattori utilizzati». Una rete di telecamere servirà poi a scongiurare i roghi indiscriminati.

Il progetto è stato avviato anche grazie al coinvolgimento di quattro giovani del campo, che hanno aiutato a vincere la diffidenza dei residenti, spesso restii a interagire con gli stranieri. Una dei quattro è Shuruq, una giovane ragazza con l’hijab che sorride e parla poco. Quando cammina per strada tutti la salutano e le chiedono informazioni… La gente ormai sa del progetto dei rifiuti e cresce la partecipazione.

La gestione dei rifiuti nel campo di Shu’fat era diventata un’emergenza, dato che la municipalità di Gerusalemme non se ne occupava più dai tempi dello scoppio della prima intifada. Il sindaco uscente di Gerusalemme, Nir Barkat, nei suoi dieci anni di mandato, ha visitato il campo una sola volta, il 23 ottobre 2018, durante la campagna elettorale per il suo successore, insieme ad alcuni spazzini e automezzi per la raccolta rifiuti della municipalità.

«A Gerusalemme non ci sono profughi – ha tenuto a dire con l’intento chiaro di delegittimare l’organismo dell’Onu – ma residenti che hanno bisogno di ricevere i servizi dal Comune come qualsiasi altro residente. Gli Stati Uniti non vogliono l’Unrwa, Israele non vuole l’Unrwa e i cittadini non vogliono Unrwa». Inutile dire che, una volta finita la campagna elettorale, nel campo sono rimasti alcuni addetti, un paio di piccoli trattori e tanta spazzatura.

Per questa ragione, per vincere la battaglia di Shu’fat, sarà decisiva l’azione di sensibilizzazione sulle tematiche ambientali, prevista dal progetto di Cesvi e Unrwa, per bambini, docenti, educatori, volontari. La sfida è far comprendere alla gente che la qualità della vita dipende prima di tutto da alcune buone pratiche per le quali serve il coinvolgimento di tutti.

Terrasanta 1/2019
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