Dal 19 dicembre scorso, su ordine del presidente Donald Trump, si stanno ritirando i 2.000 soldati americani di stanza in Siria. La decisione della Casa Bianca, criticatissima, è davvero un disimpegno?
E così Donald Trump ritira i soldati americani dalla Siria perché, dice (o meglio, twitta), «abbiamo sconfitto l’Isis». E lo fa, con ogni probabilità, contro il “partito” interno che gli rema contro fin da quando fu eletto, ovvero parti del Partito repubblicano, dei servizi segreti e del complesso militar-industriale, e che avrebbe di gran lunga preferito un impegno Usa vecchio stile, con la potenza militare bene in vista.
Abituati a trattare Trump da minus habens, molti osservatori lo criticano anche per questa decisione che, in apparenza, lascia spazio alla Russia (grande alleata di Assad), all’Iran (grande nemico degli Usa) e alla Turchia (sempre impegnata a bastonare i curdi). In realtà, Trump ha più ragione che torti. Intanto è vero che, se lo Stato islamico (Isis) è davvero sconfitto (affermazione su cui è più che lecito discutere), The Donald è il politico che, tra gli occidentali, ha più diritto a prendersene il merito. La rotta militare dell’Isis ha due cause principali. Una è l’alleanza stipulata tra Russia e Turchia. Dopo l’accordo tra i due Paesi, che erano arrivati alle soglie di una guerra, la Turchia ha chiuso il confine con la Siria e così ha tagliato i rifornimenti di armi, uomini e denaro al Califfato. L’altra ragione è il maggior impegno militare degli Usa presieduti da Trump, dopo che per più di due anni Obama aveva traccheggiato con inutili incursioni aeree, nella speranza che Al Baghdadi abbattesse il regime degli Assad.
Quando poi si è trattato di strappare all’Isis i capisaldi di Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria), gli americani non sono andati per il sottile. Poiché gli islamisti si facevano scudo della popolazione dopo aver fortificato le città, si sono ripetuti pari pari gli scenari già visti ad Aleppo. Anche se, ovviamente, lo scandalo degli osservatori è stato molto meno pronunciato.
Trump, però, ha ragione anche da un altro punto di vista. Se l’idea è di condizionare il futuro sella Siria, agli Usa non sarebbe servito a nulla tenere duemila soldati a cavallo del confine tra Siria e Iraq. I servizi segreti americani sono ben presenti nell’area e fin dai tempi del generale Petraeus (che dal 2007 al 2010 comandò le operazioni in Iraq e in Medio Oriente) hanno stipulato solide alleanze con le tribù sunnite renitenti al potere degli sciiti.
Gli Stati Uniti di Trump, inoltre, sono in conflitto con l’Iran, di nuovo sottoposto a sanzioni economiche, con la Russia anch’essa colpita da sanzioni, e sono tuttora in grado di condizionare la politica estera della Turchia. Per non parlare dell’appoggio politico, economico e militare che forniscono, e in misura sempre crescente, ad Arabia Saudita e Israele, l’una sponsor dei terroristi, l’altro sempre impegnato a tener d’occhio gli iraniani incistati in Siria e a colpirli a suon di bombardamenti. Qualche plotone americano in più o in meno, in questo contesto, fa poca differenza.
È molto curioso, infine, che quando si parla di Trump venga così spesso agitato il fantasma di un disimpegno Usa dal Medio Oriente. Il problema, semmai, sta nell’esatto opposto: gli Usa di Trump sono attivissimi in Medio Oriente, dall’embargo contro l’Iran alle forniture di armi ai sauditi, dalla partecipazione alla guerra nello Yemen alle battaglie contro l’Isis, per non parlare dello spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme in Israele (con tutto quel che ne consegue), dei bombardamenti sulla Siria, delle attività in Giordania, dei rapporti con l’Egitto. Forse, e lo diciamo sommessamente, l’impegno americano è troppo, non troppo poco.
Perché Babylon
Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.
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Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com