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A Venezia il futuro dello Stato islamico

Luca Balduzzi
31 agosto 2018
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A Venezia il futuro dello Stato islamico
Un'immagine tratta dal documentario sulle anime perse di Mosul.

Presentato fuori concorso il 30 agosto alla 75.ma Mostra del Cinema di Venezia, un documentario su Mosul (Iraq) dopo il passaggio dell'Isis. I semi dell'odio germoglieranno ancora.


«L’Isis è pronto a rinascere. Con i bambini». Non hanno il minimo dubbio Francesca Mannocchi e Alessio Romenzi, rispettivamente giornalista e fotografo collaboratori del settimanale L’Espresso, nonché autori e registi del documentario Isis, Tomorrow – The Lost Souls of Mosul, presentato fuori concorso alla settantacinquesima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia in corso al Lido. «Oggi lo Stato islamico cova sotto la cenere. Indottrinando i mujahiddin del futuro».

Che cosa è rimasto del Califfato dopo la liberazione di Mosul, il bastione dell’Isis in Iraq? Ma, soprattutto, quale futuro avranno gli orfani e le vedove dei miliziani che si sono immolati per la causa? Padri e sposi che alcuni figli e mogli hanno ammirato e non smetteranno mai di ricordare come degli eroi.

«Amavo mio marito. Molto», racconta una vedova, mostrando le foto del coniuge con un fucile in mano, una sorta di cartoline «dalla terra del Jihad». «Lo vedevo così convinto che poi mi sono convinta anch’io. Lui combatteva in nome dell’Islam. Come è scritto nel Corano: “Combattete i miscredenti dovunque li troviate”. Noi siamo cresciuti credendo in questo».

«Vedove reiette, stigmatizzate, dolenti ma non pentite, che stanno diventato reclutatrici involontarie dei loro stessi figli, nati per diventare martiri, nati per essere il futuro del Califfato», aggiungono i due autori e registi del documentario. «I semi dell’Isis sono già a Mosul. Sono i bambini, l’arma più potente del Califfo. Il mattone più solido del progetto».

Ancora: come si sta comportando l’Iraq nei confronti di questi orfani e di queste vedove? E come tratta i bambini e le vedove civili che hanno perso i propri genitori e i loro mariti, decapitati, fucilati o lapidati nelle piazze?

«Ovunque vada mi gridano “Sei dell’Isis, sei dell’Isis”», racconta un ragazzo. «Mi dicono che sono un figlio dell’Isis. Mi insultano. Se fossimo morti sarebbe andata meglio. Perlomeno non ci direbbero che siamo dell’Isis». «Gli occhi di tutti sono puntati su di noi», racconta un’altra donna. «Ci trattano come dei prigionieri di guerra. Un uomo mi ha minacciata: “Daremo fuoco alle vostre tende”. Gli ho risposto: “Invece di bruciare le tende, perché non ci metti tutti in fila, donne e bambini, ci uccidi e ti vendichi?”».

Sul versante opposto, un bambino iracheno racconta: «Mio zio e mio cugino sono stati uccisi dall’Isis. C’erano dei bambini con loro. Moltissimi bambini. Hanno imparato a combattere e a chiamare le persone “apostata” o “infedele”. Ho visto bambini della mia età, più grandi e più piccoli impugnare le armi». «Una volta, mia madre non era vestita nella maniera corretta, hanno cominciato a frustarla sulla schiena, davanti a tutti. Ero lì assieme a lei. Se avessi potuto, li avrei uccisi. Se fossi stato armato, avrei sparato. Spero che Dio faccia giustizia. Spero che vengano uccisi loro e le foro famiglie».

«La vendetta regola le azioni e le valutazioni. E in questo, ahimè, niente di nuovo quando si parla di guerra e dopoguerra», soggiungono la Mannocchi e Romenzi. «Perché li considerano perduti, perché rischiano di diventare peggiori dei padri, perché il degrado del dopoguerra non può che abbruttirli, perché i sopravvissuti saranno marchiati per sempre e quel marchio che all’inizio sarà un’onta negli anni diventerà un segno di riconoscimento, un fattore unificante, una ideale medaglia alla continuità del progetto del Califfato».

Per raccontare quello che sta succedendo a Mosul «abbiamo cercato la fiducia dei colpevoli», spiegano i due autori e registi, già alle prese con un’inchiesta su questo argomento pubblicata sull’Espresso a metà agosto, «e ci siamo posti, senza pregiudizi, in loro ascolto».

Il documentario «nasce dall’esigenza di riportare un grado di complessità alla natura di fenomeni ampi che condizionano la vita quotidiana di milioni di persone», proseguono. «Nasce poi dall’urgenza di raccontare qualcosa che è già sotto i nostri occhi, ma resta scientemente ignorato».

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