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L’azzardo di Netanyahu a spese di Israele

Giorgio Bernardelli
3 agosto 2018
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Quali calcoli tattici hanno indotto il premier israeliano Benjamin Netanyahu a introdurre proprio ora la contestata legge costituzionale su Israele Stato-nazione del popolo ebraico?


Alla fine, anche il tavolo con i drusi è saltato. Ed è stato il primo ministro Benjamin Netanyahu in persona ieri sera a farlo saltare, dopo che un ex generale druso dell’esercito in un post su Facebook aveva scritto che la legge su Israele Stato-nazione degli ebrei istituisce di fatto una situazione di apartheid. Bibi si è alzato e se n’è andato dall’incontro in cui si sarebbe dovuta concretizzare la sua «generosa offerta» alla più fedele delle minoranze, quella che ha parlamentari persino nei partiti della destra nazionalista ebraica oltre che – storicamente – reclute, graduati e quadri nell’esercito israeliano. Ora pretende dai drusi scuse che sa bene non arriveranno. Mentre domani sera in piazza Rabin a Tel Aviv – la piazza delle manifestazioni della sinistra israeliana, dove lo stesso premier degli accordi di Oslo fu assassinato nel 1995 – sarà un gruppo di ex comandanti dell’esercito e del Mossad a guidare insieme ai drusi la protesta contro il provvedimento votato dalla Knesset il 19 luglio.

Che cosa sta succedendo in Israele? E perché un freddo calcolatore come è Netanyahu – dopo averla tenuta bloccata per anni – adesso ha scelto di cavalcare la battaglia dell’ala destra della sua maggioranza portando fino all’approvazione la legge costituzionale su Israele Stato-nazione degli ebrei? La risposta è molto semplice: Netanyahu guarda alle elezioni che si avvicinano. La scadenza naturale sarebbe il novembre 2019; ma quasi tutti danno per scontato che in Israele si andrà a votare nei primi mesi del nuovo anno. Forte della sponda solidissima offertagli a Washington da Donald Trump – ma anche con la spada di Damocle delle inchieste per corruzione che continua a pendere sulla sua testa – Netanyahu ha tutto l’interesse ad andare a elezioni anticipate. Tutti i sondaggi danno la sua coalizione saldamente in testa, anche per l’assenza di un’alternativa: i laburisti sono al minimo storico, l’ex anchor-man Yair Lapid resta lontano, nuovi astri politici all’orizzonte non se ne vedono. Solo che per Bibi – comunque indebolito dalle inchieste – il problema non è solo vincere, ma anche non perdere terreno nei confronti dei partiti più a destra di lui, come La Casa Ebraica degli alleati-concorrenti Naftali Bennett e Ayelet Shaked. Dietro alla legge su Israele Stato-nazione degli ebrei c’è questo calcolo banalmente elettoralistico. La corsa a fare il pieno dei voti a destra, esattamente come accaduto nel 2015 quando – a urne aperte – Netanyahu lanciò un appello a correre ai seggi «perché gli arabi stanno votando in massa».

In fondo la legge costituzionale su cui oggi tanto si discute c’era già tutta lì: quando un premier in carica sbandiera come un pericolo il fatto che dei cittadini appartenenti a una minoranza esercitino il diritto di voto, significa già che l’uguaglianza dei diritti è negata. La trasformazione di Israele in Stato-nazione dove a contare è solo ciò che è ebraico è infatti un processo che va avanti già da molto tempo. Perché in sé questa legge sarebbe anche una dichiarazione di principio sostanzialmente vuota (con sarcasmo il presidente Rivlin – da sempre contrario – pare abbia detto: la firmerò in arabo…). Il problema vero, però, è che la nuova norma mette nero su bianco la cornice di tante scelte quotidiane assunte in questi anni e che dimostrano che sì, in Israele davvero a contare è solo ciò che è ebraico. Anche se quasi un quarto della popolazione in realtà ebreo non è.

Ma il tema che sta alla radice non è solo l’identità di Israele; la questione vera è l’identità dell’ebraismo oggi. E non è un caso che l’apoteosi dell’idea di Stato-nazione degli ebrei a Gerusalemme giunga proprio nel momento in cui i rapporti tra l’attuale leadership politica di Israele e le comunità ebraiche americane sono ai minimi storici. Perché è una determinata idea di ebraismo quella che sta dietro al contestato provvedimento; un ebraismo nazionalista, muscolare, convinto di poter confidare solo sulle proprie forze. Esattamente agli antipodi rispetto alla grande comunità che ha trovato la sua strada nel melting-pot americano che storicamente ha saputo valorizzare le minoranze e che invece oggi vede tutto questo minacciato dall’ideologia dell’America First.

Ha ragione, allora, Nahum Barnea quando osserva che – andando a picconare persino la presenza dei drusi nell’istituzione israeliana per eccellenza come è l’esercito – la legge sullo Stato-nazione degli ebrei, «la legge più anti-israeliana che ci sia», lascia un unico spazio alla convivenza tra le comunità: gli ospedali. Sì, perché almeno di fronte alla sofferenza non c’è margine per le ideologie discriminatorie. «Quando sono debole è allora che sono forte», scriveva un tempo l’ebreo Paolo di Tarso. Con una verità-provocazione che duemila anni dopo resta quanto mai attuale nell’Israele di oggi.

Leggi qui il commento di Nahum Barnea sulla legge su Israele Stato-nazione degli ebrei

  


 

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A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.

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