Suscita interrogativi la legge sullo Stato della nazione ebraica approvata quest'oggi a Gerusalemme dal Parlamento israeliano. Sempre più Stato confessionale e sempre meno Stato democratico?
Più che gli aquiloni incendiari che Hamas fa volare dalla Striscia di Gaza verso Israele, un altro evento delle ultime ore rischia davvero di cambiare la faccia di Israele e di influenzare l’evoluzione del Medio Oriente per chissà quanto tempo.
Mi riferisco all’approvazione – ottenuta questa mattina dal premier Benjamin Netanyahu, alla vigilia della chiusura estiva della Knesset – della famosa legge sullo Stato della nazione ebraica. Famosa, giustamente, perché se ne discute dal 2011, quando la prima proposta fu avanzata da Avi Dichter, ex capo dello Shin Bet (i servizi segreti interni) e attuale presidente della commissione parlamentare Esteri e Difesa. Attraverso innumerevoli versioni, la legge è stata ora approvata ed è stata accolta con reazioni diverse: entusiastiche quelle della destra che segue Netanyahu, preoccupate quelle di tutti gli altri. Non solo i palestinesi ma anche molti israeliani (in Parlamento è stata approvata con 62 sì e 55 no) e personalità indiscusse dell’ebraismo americano l’hanno definita senza tanti fronzoli «razzista».
Persino Reuven Rivlin, presidente di Israele, pochi giorni prima dell’approvazione ha compiuto una mossa senza precedenti, inviando una lettera ai parlamentari (e per conoscenza a Netanyahu). Della legge in generale, Rivlin scriveva che «potrebbe recare danno al popolo ebraico, agli ebrei nel mondo e allo Stato di Israele». La missiva conteneva, in particolare, l’invito a eliminare o emendare l’articolo che consentiva «ad ogni gruppo, senza alcuna limitazione e controllo, di creare comunità senza ebrei del Medio Oriente, oppure senza ultraortodossi, drusi, o membri della comunità Lgbt». In effetti un simile articolo non compare nella versione finale della norma approvata quest’oggi.
La legge appena approvata, infatti, oltre a dichiarare che Israele è lo Stato della nazione ebraica (a dispetto del fatto che 1,8 dei 9 milioni di abitanti, pari al 20 per cento, siano arabi), a degradare l’arabo da lingua ufficiale a lingua «di interesse» e a dichiarare che solo gli ebrei hanno diritto all’autodeterminazione, si inserisce in un contesto molto problematico. Lo Stato di Israele, per dirne una, non contempla la nazionalità israeliana, se non per gli usi esterni. All’interno di Israele, il cittadino è definito dall’appartenenza etnico-religiosa. Su questa bizzarra situazione in passato (2013) è stata chiamata a pronunciarsi, per le cause intentate da gruppi di cittadini, anche la Corte Suprema, che ha però mantenuto lo status quo ribadendo quanto era stato deciso in un analogo caso di quarant’anni prima, e cioè che «il popolo ebraico non può essere diviso in due, da un lato la nazione ebraica e dall’altro la nazione di Israele».
Questo fatto, ovviamente, spalanca la strada a una lunga serie di discriminazioni che, infatti, sono, in un modo o nell’altro, certificate in alcune norme e nella prassi quotidiana di Israele su temi scottanti come l’immigrazione, l’assegnazione delle case, la riunificazione familiare, la proprietà della terra e così via. La nuova legge, che per di più è una Basic Law – ovvero una delle leggi fondamentali che in Israele tengono il posto della Costituzione (mai redatta, né approvata) e che possono essere abrogate solo con un procedimento assai complesso – non fa che incrementare la tendenza alla discriminazione delle minoranze.
Come molti temono, ciò renderà ancor più complicata la coesistenza di due concetti assai lontani come «democrazia» e «Stato religioso». Israele riservato agli ebrei riuscirà a restare uno Stato democratico?
C’è poi un aspetto che, non a caso, viene sottolineato con frequenza nel mondo arabo mediorientale. Israele, dicono, vuole trasformarsi in uno Stato religioso. E alla luce di questa convinzione, peraltro almeno in parte suffragata dai fatti, leggo la storia recente della regione: dal progetto di divisione dell’Iraq in staterelli a base etnico-religiosa (sunniti, curdi, sciiti…) alla tentata frantumazione della Siria (dove non era difficile leggere l’intenzione di ottenere una soluzione simile a quella ipotizzata per l’Iraq) all’alleanza di Israele con l’Arabia Saudita, lo Stato confessionale per eccellenza del Medio Oriente. Inutile dire che tutto questo non procura simpatie a Israele né aiuta la causa della comprensione reciproca.
Perché Babylon
Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.
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Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com