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L’Egitto di Giulio, Amal e gli altri

Chiara Cruciati
18 giugno 2018
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L’Egitto di Giulio, Amal e gli altri
Giulio Regeni

Il 19 giugno al Cairo i magistrati decideranno se tenere ancora in carcere Amal Fathy, un’attivista che si batte anche per far luce sulla scomparsa di Giulio Regeni, e di tanti egiziani.


Il 7 giugno ad Amal Fathy è stata allungata di altri 15 giorni la detenzione cautelare e domani, 19 giugno, è prevista un’udienza di convalida del fermo. L’attivista del Centro egiziano per i diritti e la libertà (Egyptian Center for Rights and Freedom) e moglie di Mohamed Lofty, uno dei legali egiziani della famiglia Regeni, è stata trascinata via da casa sua insieme al marito e al figlio nella notte tra il 10 e l’11 maggio. Per lei si sono mobilitati anche molti italiani con uno sciopero della fame a staffetta aperto dalla madre di Giulio Regeni, Paola Deffendi, e dall’avvocata Alessandra Ballerini.

Un giorno prima, il 6 giugno, una settantina di rappresentanti di partiti di opposizione egiziani (il Partito socialdemocratico egiziano, al-Dustour, Riforma e sviluppo, Pane e libertà, Alleanza popolare socialista, Karama) venivano aggrediti da un gruppo di sostenitori del presidente Abdel Fattah al-Sisi durante l’iftar, la cena di rottura del Ramadan, che stavano consumando al Cairo. Nelle settimane precedenti in prigione erano finiti giornalisti, attivisti, sindacalisti, avvocati. Qualche nome: Haitham Mohamadein, avvocato degli operai e sindacalista; Shadi Ghazali Harb, tra i leader della rivoluzione di piazza Tahrir del 2011; Wael Abbas, tra i più noti blogger egiziani; Hazim Abdelazim, ex membro del governo e ora voce critica del regime.

Sull’altro fronte, quello economico e sociale, pochi giorni fa il governo ha annunciato l’ennesima riforma all’insegna dell’austerità: l’aumento delle imposte sull’elettricità (del 41,8 per cento per le aziende, del 20,9 per cento per le famiglie) e il taglio definitivo dei sussidi ai poveri entro il 2021. L’ennesima mannaia che si abbatte su una popolazione impoverita, che ha visto arrivare il tasso di povertà quasi al 30 per cento negli anni della presidenza al-Sisi. Tanto che, non è un caso, alle elezioni presidenziali di metà marzo in molti hanno raccontato di essersi presentati alle urne in cambio di cinque dollari o un pacco di cibo. Nonostante la «spinta» a votare, solo il 41 per cento degli aventi diritto ha infilato la scheda nell’urna

È questo l’Egitto di oggi, quello che Giulio Regeni studiava, interessato a comprenderne le dinamiche attraverso i simboli della rivoluzione del gennaio 2011: i sindacati indipendenti. Proprio costoro a maggio hanno finalmente vinto una battaglia ottenendo il riconoscimento governativo attraverso il diritto a tenere elezioni ufficiali. Peccato che, hanno denunciato molti sindacalisti, il regime ci abbia messo lo zampino: a 1.500 di loro, solo nel governatorato del Cairo, è stata rigettata la candidatura con cavilli tecnici o per generiche «ragioni di sicurezza»; ad alcuni sindacati, inoltre, non è stata riconosciuta la registrazione per carenza di documentazione.

È in tale contesto di repressione istituzionalizzata e capillare che il mese scorso il team del procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone e del pm Sergio Colaiocco sono tornati al Cairo per incontrare gli omologhi egiziani. La visita si è conclusa con un passo avanti minimo: la procura generale egiziana ha consegnato agli investigatori italiani i video delle telecamere di sorveglianza delle 53 stazioni della metropolitana della capitale, registrati tra le 19 e le 21 del 25 gennaio di due anni fa, giorno della sparizione di Regeni.

In teoria, una vittoria: la procura romana li andava reclamando da oltre due anni. Nella pratica, l’ennesima sconfitta: sequestrati dalle autorità egiziane all’indomani del ritrovamento del corpo di Giulio (avvenuto il 3 febbraio 2016), da allora conservati negli uffici della procura egiziana, dei 108 terabyte totali di materiale gli esperti sono riusciti a recuperare un misero 5 per cento. Circa 10 mila “fotogrammi” di pochi secondi l’uno, in cui gli investigatori italiani sperano di individuare immagini di Regeni o di qualcuno dei nove tra poliziotti e agenti dei servizi segreti considerati in qualche modo coinvolti nel suo sequestro e nel suo omicidio. Sempre che le tracce elettroniche non siano state manomesse… un’eventualità non così peregrina visti i precedenti palesi insabbiamenti compiuti dal regime del Cairo, il peggiore dei quali ha condotto all’uccisione di cinque cittadini egiziani innocenti che l’Egitto ha provato a spacciare per i responsabili della morte di Giulio.

A Colaiocco il procuratore egiziano Nabil Sadeq ha consegnato anche i verbali in arabo degli interrogatori dei nove sospetti. Andranno tradotti per scoprire se contengono elementi utili alle indagini. Ma al di là dei responsabili materiali dell’uccisione di Regeni – che alla fine Il Cairo potrebbe decidere di immolare per chiudere definitivamente il caso – è la responsabilità politica a rimanere. La verità politica la conosciamo già: la morte di Giulio è parte integrante del pugno di ferro del governo al-Sisi contro oppositori veri o presunti, giornalisti, organizzazioni di base, operai, sindacati, semplici cittadini.

Sul versante romano della vicenda è difficile assistere a un cambiamento di politiche da parte del nuovo governo. Lo ha ricordato pochi giorni fa il neo ministro dell’Interno Matteo Salvini: «Vogliamo ricostruire buoni rapporti con l’Egitto – ha detto in un’intervista al Corriere della Sera –. Comprendo bene la richiesta di giustizia della famiglia di Giulio Regeni. Ma per noi, per l’Italia, è fondamentale avere buone relazioni con un paese importante come l’Egitto».

Prima di lui il predecessore Angelino Alfano definiva Il Cairo alleato imprescindibile. Ai fini del governo italiano lo è: per l’esternalizzazione delle frontiere contro l’immigrazione, per la gestione della crisi libica. Il ministro dell’Interno oggi parla della necessità di ricostruire buoni rapporti con l’Egitto, presupponendo che siano in pericolo. Non è così: in bilico, forse, lo sono stati solo ad aprile del 2016, a due mesi dal ritrovamento del corpo di Giulio, martoriato dalle torture, lungo l’autostrada tra Il Cairo e Alessandria, quando l’allora titolare della Farnesina Paolo Gentiloni richiamò l’ambasciatore Maurizio Massari dall’Egitto.

Si sperò in una reale pressione sul regime del presidente al-Sisi, speranza ben presto naufragata: se da parte governativa non sono mai venute meno le intese commerciali e politiche, sono proseguiti spediti anche i rapporti tra aziende italiane e controparti egiziane, ben rappresentate dai contratti miliardari stipulati dall’Eni per il mega-bacino di gas sottomarino Zohr (giovedì scorso il ministro egiziano del Petrolio, Tarek El-Molla, ha annunciato l’entrata in funzione della terza unità produttiva terrestre del giacimento, a Port Said, con 10 giorni di anticipo sui tempi previsti). Fino al 14 agosto 2017, quando Alfano annunciò il rientro al Cairo del nuovo ambasciatore Giampaolo Cantini, agostana pietra tombale della possibilità di una rottura con il regime.

A chiedere verità e giustizia è rimasta buona parte dei media e della società civile italiana, stretti intorno alla famiglia del giovane ricercatore friulano.

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