Da qualche giorno la Giordania ha un nuovo primo ministro. Omar al-Razzaz è stato scelto lo scorso 5 giugno da re Abdallah II per guidare il governo e risolvere la crisi economica e sociale che il Paese sta attraversando. Il 4 giugno s’era dimesso il premier Hani Mulki, travolto da una settimana di ampie proteste di piazza «impressionanti ma pacifiche» come ha riferito sul sito abouna.org padre Rifat Bader, direttore del Centro studi cattolico per i media ad Amman. I manifestanti contestavano un incremento smisurato delle tasse.
Nella lettera di nomina del nuovo primo ministro, il re scrive che «il governo deve immediatamente promuovere un dialogo, in coordinamento con il Parlamento, che coinvolga partiti politici, sindacati e organizzazioni della società civile per mettere a punto un progetto di legge sulla tassazione dei redditi».
Omar al-Razzaz (58 anni) è un economista, si è formato a Harvard e ha lavorato per la Banca mondiale negli Stati Uniti e in Libano. Era già membro del governo come ministro dell’Istruzione.
Dal 30 maggio la Giordania è teatro di proteste diffuse e partecipate come non se ne vedevano dal 2011. La sera, dopo la fine del digiuno del Ramadan, le folle sono scese nelle strade per denunciare la riforma fiscale immaginata da Hani Mulki che prevede un incremento delle imposte pari al 5 per cento per i privati e dal 20 al 40 per cento per le imprese. Previsione a cui si affianca l’aumento dei prezzi (in particolare del pane, dell’elettricità e dei carburanti). Tutte misure che il Regno hashemita sta adottando su impulso del Fondo monetario internazionale (Fmi), il quale sprona a varare riforme strutturali e ridurre il deficit. Nel 2016 la Giordania ha ottenuto dal Fmi un prestito di 723 milioni di dollari spalmato su tre anni.
Priva di rilevanti risorse naturali, la Giordania – secondo le cifre ufficiali – è in una situazione economica alquanto critica, con un tasso di disoccupazione al 18,5 per cento e un quinto della popolazione che vive sulla soglia della povertà. Il debito pubblico è pari al 95 per cento del prodotto interno lordo.
Padre Bader, che vi scorge un segnale molto positivo, sottolinea che è la società civile ad aver deciso di uscire per le strade. Non si tratta, secondo il sacerdote, di iniziative di partiti politici o di gruppi radicali come i Fratelli musulmani. I giornalisti della France Presse riferiscono di aver visto alcuni dei manifestanti portarsi in piazza anche i propri figli, altri portare con sé dei dolci da offrire agli agenti delle forze di sicurezza.
L’arrivo di un nuovo primo ministro sarà un cambiamento sufficiente? Le manifestazioni si sono ripetute anche nelle sere successive alla nomina e il sovrano hashemita ha messo in guardia il suo popolo con le parole riportate dall’agenzia di stampa Petra: «La Giordania – ha sottolineato il re – è oggi a un crocevia: o riesce ad uscire dalla crisi e ad offrire una vita dignitosa ai suoi cittadini, oppure, Dio non voglia, va verso l’ignoto». Abdallah II ha anche chiesto una revisione completa della riforma fiscale.
Il Regno hashemita che confina con Siria, Iraq, Arabia Saudita e Israele-Palestina, è rimasto fino ad oggi uno dei Paesi più stabili del Medio Oriente. Contrariamente ad altri Paesi della regione – come l’Egitto, la Tunisia e la Libia – non è stato sfiorato dalle primavere arabe nel 2011. Il Regno, però, subisce i contraccolpi dei conflitti negli Stati vicini. Almeno 3 milioni di stranieri si sono riversati nel Paese (che contava già 10 milioni di abitanti): i più sono profughi provenienti da Siria e Iraq, ma un terzo è costituito da migranti economici originari di Egitto e Filippine, segnala padre Bader.