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Gerusalemme nel Ticino

Franco Cardini
3 aprile 2018
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Partendo dagli affreschi cinquecenteschi di Santa Maria degli Angeli, a Lugano (Svizzera), lo storico Franco Cardini ripercorre le origini dei Sacri Monti, la «ricerca» della Città Santa ai piedi delle Alpi.


A Lugano, città svizzera ma storicamente lombarda, sorge presso la riva del lago la chiesa di Santa Maria degli Angeli. Lì, nel tramezzo centrale, una sorta d’iconostasi frequente nelle chiese rinascimentali lombarde, trionfa la splendida Crocifissione dipinta nel 1529 da Bernardino Luini, senza dubbio il più bell’affresco monumentale di tutta la Svizzera. Il capolavoro assorbe tutta l’attenzione dei visitatori, ma i più attenti, addentrandosi nell’arco mediano che attraversa il tramezzo, scoprono due piccole scene affrescate: da una parte il panorama della Gerusalemme primocinquecentesca, che conosciamo anche attraverso miniature, acqueforti e xilografie che adornavano i diari manoscritti o a stampa dei pellegrini in Terra Santa; dall’altra, un’immagine che le guide indicano come «Monte degli Olivi». Ma non è solo questo.

Si tratta, in realtà, di un’immagine archeologicamente preziosa: è la testimonianza di come, all’inizio del XVI secolo si presentava il Sacro Monte di Varallo Sesia, edificato dai frati minori riformati («osservanti») alla fine del Quattrocento con l’appoggio di Ludovico il Moro, duca di Milano. Dal momento che il complesso monumentale subì in seguito molte sostanziali modifiche – pur rimanendo intatto nelle sue grandi linee –, l’affresco luganese aiuta a tracciarne la storia originaria.

La chiesa di Santa Maria degli Angeli fu edificata a partire dal 1499 dagli abitanti di Lugano per ringraziare i minori osservanti che in due circostanze erano stati di provvidenziale aiuto alla città: nel 1496, durante il rinnovo della pace giurata mezzo secolo prima tra le contrapposte fazioni, e nel 1498 per la caritatevole assistenza prestata durante un’epidemia di peste. È significativo che, in quell’occasione, ci si ricordasse di un’autentica gloria dell’Osservanza francescana: l’ideazione dei «Sacri Monti» o, come si usava chiamarli, delle «Gerusalemme».

Alla fine del Quattrocento, in Toscana e in Lombardia quasi contemporaneamente, si affermò una nuova forma di devozione e di concezione architettonica: quella dei Sacri Monti, piccole ma vere e proprie «città-santuario» costituite da cappelle che riproducevano, sia pure in forma spesso schematica e/o simbolica, la forma e l’ubicazione dei vari Loca Sancta che i pellegrini visitavano a Gerusalemme. Si trattava di grandi «macchine scenografiche» nelle quali chi non poteva compiere il sospirato pellegrinaggio per ragioni di età, salute o condizioni economiche, avrebbe potuto comunque accedere all’esperienza spirituale ed emozionale del santo viaggio e lucrarne alcune indulgenze. Esempio primitivo e principale di questa nuova forma di arte sacra, culto e tradizione devozionale è il convento di San Vivaldo, non lontano da San Gimignano e voluto dal minorita Tommaso da Firenze.

Esiste un salto di qualità tra l’uso precedente di riprodurre «copie» di certi Luoghi Santi, che si limitavano all’edicola o alla «rotonda» del Santo Sepolcro, e quello che si vede affermarsi a San Vivaldo e, in maniera ancora più monumentale, a Varallo Sesia, dove, più che la singola memoria, prevale l’idea del complesso e quindi del «circuito» (della «cerca», a dirla coi pellegrini). Siamo nell’ambito della trascrizione drammatica di un pellegrinaggio «spirituale», che tuttavia si trasforma in pellegrinaggio vissuto. Una peregrinatio animae che recupera a livello drammatico-simbolico, almeno, anche esperienze del pellegrinaggio fisico, trasferendole dalla grande meta di Gerusalemme ai limiti più circoscritti di un pellegrinaggio locale che, tuttavia, acquista valore speciale dal modello cui s’ispira.

La data ufficiale dalla quale far partire la storia dei Sacri Monti è il 1491, come riporta una lapide all’ingresso del Santo Sepolcro di Varallo Sesia, ma la gestazione dell’idea risale a una bolla pontificia emessa nel 1486 da Innocenzo VIII. La testimonianza pittorica di Lugano, perciò, è straordinaria per tempestività.

Varallo Sesia e San Vivaldo nascono in un comune ambito di spiritualità cristocentrica e di familiarità con la Terra Santa, caratteristiche entrambe dell’Ordine francescano. Potrebbero esserci stati rapporti diretti fra Tommaso e il Caimi, ideatore di Varallo, in Toscana o addirittura in Oriente. Secondo una cronologia diffusamente accettata, Bernardino Caimi fu in Terrasanta ai primi del 1471 e poi ancora tra 1487 e 1490. Al ritorno da questo secondo viaggio avrebbe cominciato a vagheggiare «la costruzione di un complesso di edifici che ricordassero i Luoghi Santi». Si può anche ipotizzare che fra Tommaso abbia avuto qualche diretto rapporto con un altro suo confratello, quel Francesco Suriano, autore del Trattato di Terra Santa e dell’Oriente, che fu in quegli anni custode dei Luoghi Santi.

L’idea del complesso di memoriae non era del tutto nuova. I complessi devozionali collegati alla «teatralizzazione» della Passione sono strettamente collegati alla devotio moderna fiammingo-borgognona del Tre-Quattrocento e costituiscono una rete che avvolgeva tutta l’Europa, anche se molti di loro andarono distrutti con la Riforma protestante. Ma, come sottolinea lo studioso Luigi Zanzi, il Sacro Monte non è né un Calvario, né una Via Crucis. Alla fine del Quattrocento esso si propone come riproduzione fedele e simbolica della città di Gerusalemme e dei suoi Luoghi Santi. Nell’Europa cristiana che stava progressivamente perdendo il controllo del Mediterraneo, sempre più egemonizzato da turchi e barbareschi, l’originale proposta di fra Bernardino Caimi fu di consentire il pellegrinaggio alla Città di Gesù a quanti non avrebbero mai potuto passare il mare per compierlo e lucrarvi le relative indulgenze. Un’altra Porta del Paradiso si spalancava dinanzi alle genti lombarde e toscane: un modo per accedere con minor pena e maggior sicurezza al Regno dei cieli senza dover affrontare i costi e i disagi del viaggio in Palestina. Al tempo stesso, era una geniale scappatoia offerta alla Chiesa e ai principi cristiani. Secoli di sconfitte e di umiliazioni, culminate nella presa ottomana di Costantinopoli nel 1453, avevano insegnato che la crociata era inutile e la riconquista cristiana di Gerusalemme impossibile. D’altronde, i mercanti continuavano ad affluire fiduciosi in Oltremare e, in realtà, col sultano – con il quale di quando in quando si facevano guerre – ci si poteva tranquillamente accordare.

Frattanto la devotio moderna, che aveva conquistato tanti spiriti mistici nel XV secolo, sconsigliava le espressioni troppo esteriori di religiosità, preferendo atteggiamenti più intimi e segreti. La peregrinatio animae, ad esempio: la silenziosa e sedentaria ricerca della Gerusalemme che ogni fedele portava nel suo cuore. Un pellegrinaggio domestico, serenamente compiuto magari con la famiglia, avrebbe assicurato tutti i vantaggi spirituali del grande viaggio oltremarino e avrebbe nel contempo assicurato alle autorità ecclesiali e politiche il controllo costante dei fedeli-sudditi.

Il Sacro Monte nasce, quindi, all’insegna di un significativo, densissimo nodo problematico: la trasformazione dell’idea di crociata, che tra Quattro e Settecento sarebbe stata vissuta, anche con momenti di drammaticità ed entusiasmo, soprattutto come lotta contro il Turco per la difesa dell’Europa; il radicarsi della rete dei nuovi santuari europei dopo il lungo predominio medievale delle tre grandi mete sacrali di Roma, Santiago e di Gerusalemme; la trasformazione delle forme architettonico-urbanistiche sacre in rapporto con nuove concezioni, connesse con l’idea rinascimentale di «città ideale» e forme fino ad allora inedite di teatralizzazione della vita religiosa.

La Riforma protestante e la successiva risposta cattolica avrebbero conferito ai Sacri Monti un nuovo ulteriore significato, che spiega il loro situarsi, quasi «fortezze della fede», sull’arco prealpino. Riaffermazione della professione di fede cristiana fondata su una vita liturgica e devozionale comunitariamente vissuta, contro la proposta riformata d’una religiosità prevalentemente intima e individuale e con il relativo abbandono di pratiche come il pellegrinaggio e il culto delle reliquie.

Nel contempo, l’immagine e la memoria di Gerusalemme come «luogo alto», civitas in monte posita, consentono a livello più propriamente antropologico-religioso, la contestualizzazione del Sacro Monte prealpino nell’ambito concettuale ed esegetico d’un grande archetipo religioso: quello della «montagna sacra», onnipresente nell’esperienza mitico-religiosa umana. Un «mitema» universale, di cui l’Ararat, l’altura del Sion, il Sinai, il Tabor, il Carmelo e soprattutto il Calvario sembrano i testimoni nella tradizione biblico-evangelica. L’esperienza devozionale e architettonica prealpina si presenta dotata di un valore che spetta agli studiosi – storici, architetti, storici dell’arte, iconologi, archeologi, storici del cristianesimo e delle religioni – approfondire e recuperare in tutte le sue ardue e delicate articolazioni. Ma il cuore – se si vuole, l’inconscio – arriva immediatamente in volo, là dove la ragione deve percorrere un faticoso sentiero. Tutti quelli che aspirano anche per caso l’aria d’un Sacro Monte, intuiscono che, al di là delle forme artistiche talvolta semplici e ingenue, c’è molto di più. Una presenza insondabile.

Il Sacro Monte è la versione cristiano-cattolica rinascimentale e francescana della montagna sacra. Il mondo cristiano ha espresso nella concezione dell’homo viator, del viaggiatore, il simbolo della ricerca spirituale che – per il fatto di essere intima e spirituale – nondimeno si può esprimere anche nei termini di un reale spostamento da un luogo all’altro. Il termine «pellegrino» deriva dal verbo latino peragere ricco di significati: «muoversi con inquietudine, senza tregua», «condurre a termine» (e, quindi, «perfezionare», ma anche «morire»). Il peregrinus non è semplicemente l’advena o l’hospes, lo «straniero». Peregrinus esprime l’estraneità e al tempo stesso l’estraniamento e lo spaesamento. Il pellegrino è tale in quanto straniero nella terra nella quale giunge; ma al tempo stesso l’espressione che lo qualifica è ambigua, può significare il contrario: egli potrebbe essere straniero nella sua terra d’origine e la sua vera patria essere la sua meta. Il cristiano è cittadino del cielo, la sua vita è un pellegrinaggio perché egli parte dall’esilio e desidera tornare in patria.

Il viaggio può significare un mutamento di stato e di qualità, un passaggio dal mondo consueto a una dimensione «altra», differente, sacra, o «santa», in contatto con il divino. Andare in pellegrinaggio può significare affrontare un passaggio dallo spazio profano (vale a dire non sacralizzato) a quello di un «tempio». Per questa ragione, non è detto che la mèta del pellegrinaggio sia su questa terra.

Luoghi e oggetti di un culto che include lo spostamento dei fedeli e la loro volontà di mettersi in contatto con un «centro di forza» si trovano in tutti i sistemi mitico-religiosi di cui abbiamo notizia.

L’uomo viaggia molto, nello spazio e, ancora di più, dentro se stesso, con la preghiera, il sogno, la visione, il desiderio. La familiarità di certe care, umili pareti di calce, mattoni e pietra serena non deve ingannarci. Siamo ben più antichi e più complicati di quanto crediamo e le nostre molteplici religioni sono, a loro volta, molto più vicine tra loro di quanto non ci capiti di supporre.

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