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Nasser e oltre, i copti nella politica egiziana

Giampiero Sandionigi
24 luglio 2018
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Nasser e oltre, i copti nella politica egiziana

L'opera di una ricercatrice italiana indaga il rapporto tra la comunità dei cristiani copti e il potere centrale in Egitto ai tempi del panarabismo nazionalista (e non solo). Gettando luce sui giorni nostri.


Nel marzo scorso per, la scelta del capo dello Stato, neppure quattro elettori egiziani su dieci si sono recati alle urne. Quasi tutti – 22 milioni di votanti, oltre il 97 per cento – erano lì per riconfermare in carica il presidente uscente Abdel Fattah al-Sisi.

Per Alessia Melcangi, ricercatrice universitaria e autrice del volume I copti nell’Egitto di Nasser. Tra politica e religione (1952-70), la cosa si spiega: se è vero che sotto il profilo economico il Paese ha molti problemi, un livello di vita insoddisfacente per gran parte della popolazione e un’inflazione in costante crescita, è altrettanto vero che il tema della sicurezza ha giocato un ruolo essenziale: «Il presidente al-Sisi – ci dice – si è presentato come l’uomo forte, che può assicurare una certa stabilità a livello sociale. Si è preferito riconfermagli il mandato piuttosto che rischiare un nuovo periodo di transizione o di caos sociale, dopo quello del 2011, che avrebbe messo ancora di più in crisi, o in ginocchio, l’Egitto. Un salto nel buio non era previsto».

Senza dubbio con al Sisi si sono schierati anche i copti, o almeno molti di essi. In prima linea il patriarca Tawadros che si è molto esposto.

La relazione tra il potere politico e la comunità copta (che rappresenta tra il 7 e il 10 per cento della popolazione), la Melcangi l’ha studiata a fondo, concentrandosi in particolare sui primi due decenni della seconda metà del Novecento, dominati dalla figura del presidente Gamal Abdel Nasser.

Dopo gli studi in scienze politiche all’università di Catania, la studiosa ha scelto di concentrarsi sull’Egitto perché affascinata da quel Paese e, come confida lei, «interessata ad approfondire la conoscenza di Nasser, un leader carismatico, protagonista della nazionalizzazione del canale di Suez, e delle ideologie nate negli anni Sessanta, con la fine del colonialismo, la diffusione del socialismo, la dialettica tra religione e Stato. Nell’occasione di un convegno internazionale di studi sul Medio Oriente fu creato un gruppo di studio sulla situazione dei cristiani. Cominciai a riflettere sul ruolo dei copti e decisi di studiarne la storia».

Reperire materiale utile non è stato semplice: i copti in Egitto restano piuttosto diffidenti e non consentono facilmente agli studiosi stranieri di accedere agli archivi. Lavorare è stato molto più agevole, invece, negli archivi dei ministeri degli Esteri a Roma, a Parigi e Londra. «Esaminando la corrispondenza diplomatica con la Santa Sede – spiega la ricercatrice – le questioni religiose erano favorite. Ho trovato quindi molti spunti riguardanti anche questioni interne, come la vita della Chiesa e la gestione dei suoi beni. Il carteggio con la Santa Sede riguardava i copti in generale, perché dal Vaticano lo sguardo era ampio. Dalle cancellerie, i copti ortodossi venivano considerati unitamente ai copti cattolici».

Una prospettiva storica come quella che Alessia Melcangi ha acquisito col suo lavoro ci aiuta a meglio inquadrare anche l’oggi. Non mancano le analogie, e le differenze, con la seconda metà del Novecento.

«L’attuale patriarca copto Tawadros II – osserva l’autrice, rifacendosi ai contenuti del suo libro – ha riprodotto un meccanismo già presente in precedenza, nato proprio nella fase di Nasser e di Cirillo VI: è l’epoca dell’adesione ferma del patriarca, quale unico rappresentante riconosciuto e legittimo del popolo copto. È lui a porsi non solo come leader spirituale, ma anche politico, interlocutore del potere centrale. Del resto, questa non è una novità assoluta: pensiamo all’organizzazione dell’Impero ottomano, basata sui millet (le comunità religiose non musulmane – ndr), nella quale veniva riconosciuto ai capi religiosi delle varie comunità anche un ruolo politico per mezzo del quale fosse possibile irradiare il potere centrale all’interno dei gruppi di riferimento. È, se vogliamo, lo stesso ruolo che si trovano comunemente ad esercitare i leader di queste minoranze quando si trovano in un Paese ove la maggioranza professa un altro credo».

Subito dopo la sua elezione a patriarca, nel 2012, Tawadros sembrava intenzionato a concentrarsi eminentemente sugli aspetti spirituali, distanziandosi dal predecessore Shenuda III, osserva la Melcangi: «Invece poi si è ritrovato a dover ricoprire nuovamente un ruolo di vicinanza al potere politico. Parliamo di un periodo particolare: il 2012-2013 che è stato l’anno di Mohammed Morsi, presidente eletto e poi destituito dai militari con un colpo di Stato, avallato da una mobilitazione di parte della popolazione nelle piazze. Il patriarca fu chiamato a prendere posizione e scelse di allinearsi con i militari».

Tra il binomio Tawadros/al Sisi e Cirillo/Nasser  ci sono via via sempre più similitudini e meno differenze, osserva la ricercatrice: «Riflettevo proprio sull’inaugurazione della nuova cattedrale copta in quella che sarà la futuristica capitale amministrativa egiziana. Le immagini del gennaio scorso, con la partecipazione del presidente al Sisi, mi hanno subito ricordato quelle di Nasser e Cirillo, quando fu inaugurata la cattedrale di San Marco, al Cairo, nel 1968: entrata trionfale mano nella mano e discorso che richiamava alla fratellanza tra cristiani e musulmani. Sisi si vuole porre come il nuovo Nasser, gioca molto su questa immagine. Nasser, d’altronde, rimane ancora nel cuore degli egiziani come il presidente che nazionalizzò Suez (passaggio essenziale per la dignità egiziana), che lottò contro lo Stato di Israele per la difesa dei palestinesi. Resta un leader del panarabismo, riconosciuto in tutto il mondo arabo».

«In realtà il presidente al Sisi non ha la stessa caratura di Nasser – chiosa la Melcangi – e la situazione è completamente diversa, perché tutte le condizioni che portarono Nasser a un dialogo diretto con la comunità copta sono diversissime dalle attuali. A differenza di oggi, negli anni Sessanta l’elemento religioso era tenuto ai margini e la religiosità era relegata alla sfera personale e privata. Benché Nasser mantenesse il riferimento al Ramadan e alle festività religiose musulmane, era comunque importante tenere la religione fuori dalla sfera politica. A Nasser faceva gioco servirsi del potere religioso per esercitare il controllo sul sistema sociale e mantenere il potere, tanto è vero che gli ulema dell’Università di al-Azhar divennero dipendenti dello Stato, perdendo l’autonomia di cui avevano goduto fino a quel momento. La relazione diretta con il patriarca Cirillo, che assunse il ruolo di leader politico permise di “manipolare” la comunità copta e allinearla alle sue decisioni politiche».

È una fase di rottura rispetto all’esperienza precedente: «Nell’Egitto liberale di fine Ottocento-inizi Novecento c’era multipartitismo e pluralità di posizioni tra i copti in ambito sociopolitico. A metà del secolo il pluripartitismo viene sostituito dal partito unico di Nasser; il leader indiscusso, il rais, eletto anche all’epoca con una sorta di plebiscito con percentuali di consenso bulgare. Si affievolisce il fermento che vi era nell’Ottocento, quando i copti trovarono uno spazio di partecipazione quasi naturale, contrapponendosi alla politica di stampo coloniale inglese del divide et impera che mirava a fomentare i cristiani contro i musulmani, in una sorta di confusione sociale che consentisse ai britannici di mantenere il potere. I copti, invece, si allinearono con i musulmani per la nazione egiziana. Il nazionalismo era il punto di riferimento essenziale per tutti, anche perché i copti, va ricordato, si considerano la popolazione originaria dell’Egitto. Quindi chi potrebbe essere più nazionalista di loro?».

Continua Alessia Melcangi: «Nella comunità copta, come in tutte le comunità minoritarie, vi è un dinamismo interno, un dibattito. L’élite che nell’Ottocento, ma anche storicamente, aveva svolto un ruolo fondamentale da metà Novecento viene pian piano messa da parte, attraverso l’alleanza tra Nasser e il patriarca Cirillo. Via via vengono meno gli spazi di partecipazione e si indebolisce il Maglis al Milli – era il consiglio della comunità composto da laici – che aveva il compito di cooperare nella gestione ed amministrazione dei beni ecclesiastici (i cosiddetti beni awqaf) e anche in materia di statuto personale dei copti (tutto ciò che attiene ai matrimoni, ai divorzi e all’eredità). Nel momento in cui, nel 1955, lo Stato dà preminenza ai suoi tribunali e alle sue leggi vengono meno sia i tribunali sharaitici (musulmani) sia quelli cristiani, organizzati dal Maglis al Milli. Sullo statuto personale di tutti i cittadini si pronunciano ora i magistrati dello Stato, che non per forza devono conoscere le norme e le regole delle varie comunità. Ne deriva un danno diretto a queste ultime; la corresponsabilità attribuita al consiglio dei laici viene sempre più erosa, fino alla marginalizzazione totale che si ha con Cirillo VI, il quale si impone come leader assoluto».

La ricercatrice siciliana conclude che «ai giorni nostri rimangono delle voci, piuttosto marginali, che sono quelle dell’intellighenzia copta, di accademici e intellettuali che dibattono sul concetto di cittadinanza e su quello di minoranza, tuttora dibattuto all’interno della comunità. Basti pensare al tema delle quote negli organi di rappresentanza politica, che per molti sono un elemento di discriminazione e per altri l’unico modo per poter partecipare alla vita politico-istituzionale».


 

Alessia Melcangi
I copti nell’Egitto di Nasser
Tra politica e religione, 1952-70
Carocci editore, Roma 2017
pp. 272 – 29,00 euro

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