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Sefforis perla di Galilea

Claire Burkel
24 gennaio 2018
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Sefforis perla di Galilea
Sefforis, nei mosaici di una villa d'epoca romana il volto di donna conosciuto come la «Monna Lisa della Galilea» (foto Peter Schüller/CTS)

Storia, antichità e splendidi mosaici: Sefforis è uno dei gioielli della Galilea. La tradizione, contestata da certa critica storica, le attribuisce l’onore di aver accolto la Vergine Maria e i suoi genitori.


Una città di cui né l’Antico né il Nuovo Testamento portano traccia. Cosa che non smette mai di sorprendere, vicina com’è a Nazaret (7 chilometri a nord-ovest), tanto vicina che Gesù non poté ignorarla. Ma questa d’altronde è l’essenza stessa dei Vangeli: non furono scritti per raccontarci la vita di Gesù alla maniera dei biografi, ma avendo in mente la Salvezza, e solo quella. Per questo, molti episodi dell’infanzia e della giovinezza di Gesù continueranno a rimanere sconosciuti, nondimeno questi scritti saranno sempre fonte copiosa di Sue parole e gesti a nutrimento della nostra fede.

Torniamo a Sefforis e rimaniamoci almeno mezza giornata. Questa città offre infatti l’occasione di leggere un gran numero di testi che non la menzionano, ma che qui assumeranno colori splendidi.

Il primo periodo di occupazione risale probabilmente al Bronzo recente, tra il 1400 e il 1200 a.C., in una Bassa Galilea ricca d’acqua e quindi di civiltà, e prosegue nell’età del Ferro. Una fortezza vi fu costruita dal sovrano seleucide Antioco III il Grande (223-187), vincitore del generale tolemaico Scopas nel 200 a.C., cosa che portò alla supremazia seleucide nella regione.

Quando Pompeo conquistò il Paese nel 63 a.C., lasciò Sefforis in mano agli asmonei, facendone la capitale amministrativa della Galilea; sarà soppiantata soltanto da Tiberiade nel 20 d.C. Fino alla morte di Erode il Grande, la città soffrì a causa degli antagonismi tra i fratelli della dinastia asmonea, pur rimanendo, secondo la cronaca di Giuseppe Flavio, l’«ornamento della Galilea». Sotto Nerone (54-68) fu chiamata Eirenopolis, «città della pace», perché durante la guerra giudaica, intorno al 66 d.C., aveva fatto appello alla protezione di Vespasiano, prendendo le distanze da tutte le altre città ebraiche. Nel II e nel III secolo presenta un aspetto del tutto romano: impianto urbanistico regolare, cardo e decumanus, strade lastricate, quartieri commerciali, residenziali e riservati agli edifici pubblici, teatro da 4.500 posti, il tutto per una popolazione mista, ebrea, cristiana e pagana. Tra il V e il VII secolo, completamente ricostruita dopo il terremoto del 363, Sefforis è al massimo del suo splendore, e cristiani ed ebrei vi convivono pacificamente. È sede episcopale, e tradizioni tratte da scritti tardivi prendono pian piano corpo: la famiglia paterna di Maria sarebbe stata originaria di Sefforis, Giuseppe vi avrebbe lavorato e la basilica costruita più tardi dai crociati a Saphoria sorgerebbe addirittura sulla casa di Anna e Gioacchino, genitori della Vergine.

I prodotti agricoli abbondano nei due mercati di cui si è individuata la posizione: orzo, grano, olive, uva, melograni, fichi e noci, ma anche vino, olio e prodotti di artigianato: vasi, ceramiche, oggetti in vimini, tessuti, manufatti in vetro e metallo. Per espandere i commerci, venditori ambulanti e mercanti partivano da qui alla volta dei villaggi della Galilea, tra cui certamente Nazaret.

È forse a Sefforis che pensava Gesù citando «una città che sta sopra un monte» (Vangelo di Matteo 5,14b) nel discorso delle Beatitudini? Certo, Sefforis non è l’unica città costruita su un’altura, ma ha fatto parte del paesaggio familiare di Gesù durante gli anni della «vita nascosta». Ritroviamo lo stesso riferimento all’altezza nel Talmud, che si chiede: «E perché il suo nome è Zippori? Perché essa è assisa alla sommità di una montagna come un uccello [zippòr, in ebraico]».

Non sono state ritrovate tracce della sinagoga del I secolo, ma possiamo ipotizzare che quella del V fu costruita, come a Cafarnao, al posto di una più antica. In ogni caso, sarà la meta della nostra prima tappa, collocandoci come pellegrini sui passi dell’Antico Testamento. Oggi non ne rimangono che alcuni gradini e un mosaico pressoché integro che, in sette fasce orizzontali, sviluppa motivi religiosi tradizionali che potremo commentare Bibbia alla mano. Partendo dall’entrata, due pannelli riguardanti Abramo introducevano i fedeli nel rispetto dell’Alleanza stipulata tra Dio e il patriarca: la scena più nota, il sacrificio di Isacco – che ci dà l’occasione di rileggere Genesi 22 –, e l’annuncio ad Abramo e Sara della prossima nascita di un figlio (Genesi 18,10-15). Altre raffigurazioni in case di preghiera ebraiche confermano la possibilità, qui ben visibile, di rappresentare personaggi della Scrittura; non sappiamo quando entrerà in vigore esattamente il divieto a qualsiasi arte figurativa, ma si è potuto constatare che gli stessi artisti hanno spesso lavorato tanto per chiese quanto per sinagoghe.

Altre fasce recano utensili liturgici, pinze e palette per incenso, shofar, menorah e lulav; poi un’immagine, purtroppo alquanto rovinata, di Aronne nel suo ruolo di sommo sacerdote, da leggere in riferimento al cap. 29 dell’Esodo, e una tavola con pani da offerta (Es 37,10-16) a fianco di una cesta di primizie secondo la liturgia descritta in Esodo 26. Tra le scene bibliche e i riferimenti al culto del Tempio, troviamo una fascia più «pagana» raffigurante, in un quadrato, il sole su un carro – ma non si tratta di un riferimento ad un uomo-dio – circondato dallo zodiaco e, negli angoli, quattro busti di donna a simboleggiare, attraverso i loro attributi agricoli, le quattro stagioni. Concluderemo la nostra meditazione con il bel capitolo 24 dell’Ecclesiastico, o Siracide, che inscrive la Sapienza nella geografia d’Israele e nel progetto di Dio a favore del Popolo eletto. Colori naturali, qualche parola in ebraico e in greco, una grande semplicità d’insieme permettono di collocare questa storia comune di un Dio e del suo popolo nel tempo universale. E di questa storia noi pellegrini siamo gli eredi.

La nostra seconda tappa sarà il complesso, più a sud, della cosiddetta «casa del Nilo», così chiamata per il grande mosaico di questa villa romana. Vi troviamo: una fascia di deserto con scene di caccia molto realistiche, una fascia di scene «egizie» con il faro di Alessandria, un nilometro e un cavaliere che porta la buona notizia della futura prosperità, perché il livello del fiume è ai suoi massimi. Qui non ci sono riferimenti religiosi, tuttavia, di fronte a questo pavimento ben conservato di 13 metri quadrati, prendiamoci del tempo per leggere i capitoli dal 6 al 9 del libro della Sapienza: «Dal Signore vi fu dato il potere e l’autorità dall’Altissimo» (Sap 6,3). Discorso posto sulla bocca del grande re Salomone, che più realisticamente risale all’età ellenistica, quando la vita d’Israele si trova di fronte alle potenti mitologie della Grecia. Il suo tratto distintivo è la conoscenza di Dio, che gli consente di governare «il mondo con santità e giustizia» ed esercitare «il giudizio con animo retto» (Sap 9,3). Un altro testo, attribuito al profeta Geremia per analogia con il nome di Baruc, suo segretario (Ger 36,4), ma che quasi certamente è anch’esso piuttosto tardo, si presta qui a una lettura: Baruc 3,9-38. «Dove sono i capi delle nazioni, quelli che dominano le belve che sono sulla terra… quelli che ammassano argento e oro, in cui hanno posto fiducia gli uomini?». E infine ciò che la Sapienza dice di sé stessa (Proverbi 8,12-36), che è il tesoro della fede ebraica: «Il mio frutto è migliore dell’oro più fino, il mio prodotto è migliore dell’argento pregiato. Sulla via della giustizia io cammino e per i sentieri dell’equità, per dotare di beni quanti mi amano e riempire i loro tesori».

Altri mosaici ricoprono il pavimento di questo edificio che conta una ventina di ambienti: amazzoni a caccia o durante un banchetto, e un centauro che regge un cartiglio con la scritta «al Dio salvatore». I responsabili del sito hanno peraltro allestito uno spazio didattico in cui viene spiegata la tecnica del mosaico.

Ma altre meraviglie attendono il visitatore in questa città dal ricco passato; da non perdere il teatro romano, vera e propria prodezza della tecnica (il terreno infatti era tutt’altro che adatto alla sua costruzione); il fortino crociato, dalla cui sommità lo sguardo si spinge fino a Cana, a nord; la casa con il celebre pavimento di «Monna Lisa», così chiamato per il delicato volto femminile che orna un grande mosaico dedicato a Dioniso e alle gioie della vendemmia; il grande sinnor d’acqua scavato nella roccia che serviva da riserva idrica della città, avida di acqua per le sue terme, le fontane e la popolazione numerosa.

Bellezza di una città sovrastante la campagna, che dominava e al contempo manteneva in vita. Ricchezza ostentata, quasi all’opposto della modestia di un villaggio come Nazaret, che avremo visitato poco prima. Complessità della società all’epoca di Gesù, e ancora di più nei secoli a venire. Profusione di lusso rimessa nella giusta prospettiva grazie ai testi letti. Discordie fratricide, ma anche armonia tra diverse comunità. Un vero concentrato di storia, sociologia e approccio alla fede: ecco cosa ci offre Zippori, l’antica Sefforis.

(traduzione di Roberto Orlandi)

 


 

Curiosità e oggetti da scoprire

Per essere una città di cui non si parla nelle Scritture, o forse proprio per questo, il toponimo Sefforis conosce numerose grafie e varianti: Tzipori o Zippori in ebraico, Saffuriya in arabo, Sépphōris in greco. E poi ancora Sephoris, Seffori, Saphoria

Lo shofar è un corno d’ariete usato per annunciare l’inizio dello Shabbat (il sabato) o un altro evento importante. È menzionato spesso nella Bibbia e nella letteratura rabbinica. È usato per annunciare la luna nuova e le feste solenni (Numeri 10, 10, Salmi 81, 4) così come per proclamare l’anno del Giubileo (Levitico 25;8-13). La sua voce risuona anche nel settimo mese (Tishri) per proclamare Rosh haShana, il capodanno ebraico (Levitico 23, 24 e Numeri 29, 1).

La menorah, calendario a sette braccia molto presente nella liturgia, è considerato il simbolo religioso di Israele. Secondo alcune tradizioni la menorah sta a simboleggiare il roveto ardente in cui si manifestò a Mosè la voce di Dio sul monte Horeb; secondo altre letture, esso rappresenta il sabato (al centro) e i sei giorni della creazione.

Terrasanta 1/2018
Gennaio-Febbraio 2018

Terrasanta 1/2018

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