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Terra Santa, i capi delle Chiese per lo Status quo

Giampiero Sandionigi
24 ottobre 2017
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Terra Santa, i capi delle Chiese per lo Status quo
Al centro della foto il patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme Theophilos III. (foto Wisam Hashlamoun/Flash90)

È un momento delicato nei rapporti tra le autorità israeliane e i capi delle Chiese di Terra Santa. Ma anche all'interno della comunità greco-ortodossa c'è maretta...


Con toni netti, il 4 settembre scorso i capi delle tredici Chiese di Terra Santa hanno criticato Israele per quelle che considerano gravi minacce ai diritti delle comunità cristiane locali.

In una Dichiarazione congiunta gli ecclesiastici scrivono che sono in corso – nelle aule dei tribunali e nel Parlamento di Israele – attacchi allo Status quo, quel regime di consuetudini «che regola i Luoghi Santi e garantisce i diritti e i privilegi delle Chiese». «Lo Status quo – annota il testo – è universalmente riconosciuto dalle autorità religiose e dai governi, ed è sempre stato sostenuto dalle autorità civili della nostra regione».

«Vediamo in queste azioni – si rammaricano i capi delle Chiese – il tentativo sistematico di minare l’integrità della Città Santa di Gerusalemme e della Terra Santa e di indebolire la presenza cristiana. Affermiamo, nella maniera più chiara possibile, che una comunità cristiana dinamica e vivace è un elemento essenziale nella composizione della nostra società così diversificata».

Cosa ha determinato una simile presa di posizione? La volontà di schierarsi a fianco del patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, Theophilos III, in un momento assai delicato nella gestione dell’ingente patrimonio immobiliare di quella Chiesa (secondo i media israeliani il patriarcato sarebbe il maggior proprietario di terre ed edifici in Israele dopo lo Stato).

In luglio sulla stampa è rimbalzata la notizia che i greco-ortodossi hanno venduto a cordate ebraiche, la proprietà di terreni di prestigio in Israele: luoghi in cui sorgono la torre dell’Orologio nel centro storico di Jaffa o l’anfiteatro di Cesarea Marittima (certamente non destinabili ad altro uso).

La notizia ha scatenato polemiche all’interno della comunità greco-ortodossa: molti fedeli palestinesi contestano la vendita di beni ai sionisti e lamentano che le somme incassate non vadano a beneficio della comunità. Le contestazioni rinfocolano la polemica sotterranea tra clero e fedeli arabi e i vertici del patriarcato, vale a dire la comunità monastica greca che presidia i principali santuari.

Uno dei picchi della tensione tra queste due componenti si registrò nel 2004, quando il patriarcato, allora retto da Ireneos I, alienò tre immobili in città vecchia: un’abitazione nel quartiere musulmano e gli alberghi Imperial e Petra, presso la Porta di Jaffa. Con una transazione non proprio trasparente la proprietà fu trasferita all’associazione Ateret Cohanim, proattiva nell’opera di giudaizzazione di Gerusalemme Est. Quella contestatissima operazione costò a Ireneos il posto di patriarca. Nel 2005 gli subentrò Theophilos III che si rivolse alla magistratura israeliana per far invalidare la vendita dei tre immobili, conclusa, forse, grazie alla corruzione di un funzionario del patriarcato. Il lungo iter legale è giunto a sentenza il 29 luglio scorso: i giudici israeliani hanno respinto le istanze dei greco-ortodossi e considerato valida e lecita la vendita. Il che ovviamente ha accresciuto le difficoltà di Theophilos, di cui vari gruppi organizzati di palestinesi chiedono le dimissioni.

A peggiorare il clima c’è l’iniziativa parlamentare della deputata Rachel Azaria, del partito Kulanu, che ha depositato alla Knesset una proposta di legge che i capi delle Chiese considerano una discriminatoria mina vagante.

Vi si prevede, in sostanza, che qualora le Chiese mettano in vendita delle proprietà immobiliari queste siano prontamente nazionalizzate. Ai compratori spetterebbe solo un congruo indennizzo. Se una simile norma dovesse essere adottata, sarebbe assai complicato mettere sul mercato altri beni del patrimonio ecclesiastico.

Ma perché giungere a tanto? Si tratta, dice la deputata proponente, di tutelare molte famiglie ebraiche dei quartieri occidentali di Gerusalemme, che rischiano, di qui a qualche tempo, di perdere la casa. Per capire cosa c’entrino le Chiese è necessario un passo indietro nel tempo: negli anni Cinquanta del secolo scorso il patriarcato greco-ortodosso cedette il diritto di superficie su alcuni suoi terreni a Gerusalemme al Fondo nazionale ebraico, con una sorta di contratto d’affitto della durata di 99 anni. Su quegli appezzamenti sono poi sorte le case e i quartieri dei privati che vi abitano. Oggi il patriarcato vende i diritti di proprietà di quel suolo a speculatori che potrebbero avviare vertenze con chi gode del diritto di superficie o non prorogare il contratto a scadenza. Così gli edifici si svalutano e sul futuro si addensa grande incertezza. Resta il fatto che l’idea di nazionalizzare le proprietà ecclesiastiche messe sul mercato, ai capi delle Chiese proprio non va giù.

Terrasanta 5/2017
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