Padre Jacques Murad si racconta sul canale arabo della tivù pubblica inglese
«Ho deciso che dovevo scappare da Qaryatayn quando ho visto coi miei occhi che i miliziani dello Stato islamico avevano distrutto il monastero di Mar Elian, di cui ero priore». Così, in un'intervista alla BBC, padre Jacques Murad, il sacerdote siro cattolico rapito da uomini dello Stato islamico (Isis) lo scorso 21 maggio e fuggito dalle loro mani il 12 ottobre.
(c.g.) – «Ho deciso che dovevo scappare da Qaryatayn quando ho visto coi miei occhi che i miliziani dello Stato islamico avevano distrutto il monastero di Mar Elian, di cui ero priore, e la tomba del santo (Mar Elian, un monaco del IV secolo che ebbe tra i suoi discepoli anche Efrem il Siro – ndr). Sono fuggito per incoraggiare gli altri cristiani del mio villaggio a non rimanere sotto lo Stato islamico e ad imitarmi».
Emergono nuovi particolari sulla vicenda di padre Jacques Murad, sacerdote siro cattolico rapito da uomini dello Stato islamico (Isis) lo scorso 21 maggio e fuggito dalle loro mani il 12 ottobre, dopo cinque mesi di prigionia. Oggi padre Jacques si trova nei pressi di Homs. Qui è stato raggiunto da una troupe dei programmi in lingua araba dell’emittente britannica BBC, che lo ha intervistato sabato 24 ottobre. Le immagini riprendono padre Jacques finalmente libero, mentre celebra una messa in un cortile con qualche decina di fedeli. L’altare usato per la celebrazione è un tavolino coperto da un panno, appoggiato ad una parete del cortile. La croce che lo sovrasta è formata da due semplici rami legati insieme. Durante l’omelia padre Jacques si pone ad alta voce la domanda che tutti i cristiani di Siria, in fondo, si portano dentro: «Tanti si chiedono dov’è Dio? Quando verrà a salvare il suo popolo da queste stragi?».
«Tre settimane prima che mi rapissero ho avuto la percezione di essere in pericolo, che qualcuno mi stesse sorvegliando – ha raccontato padre Jacques ad Assaf Aboud, il giornalista della BBC che lo ha intervistato –. Poi, il 21 maggio (quando ancora Qaryatayn non era nelle mani dell’Isis – ndr) alcuni uomini con il volto coperto sono venuti al villaggio. Due di loro sono entrati nel monastero e hanno preso me e un seminarista. Ci hanno legati e incappucciati e, con la macchina del monastero, ci hanno portati a mezz’ora di strada dal villaggio, sulla montagna. Dopo quattro giorni ci hanno trasferito nella città di Raqqa. Qui, per 84 giorni sono rimasto in prigione. In generale mi hanno trattato bene. Non siamo stati torturati. Ma tutti i giorni entravano nella mia cella e mi parlavano duramente: mi dicevano che eravamo infedeli, che sbagliavamo e che l’unica religione vera è l’islam che propone lo Stato islamico. Dicevano di essere venuti per portare la religione giusta. Sono gente dalle grandi ambizioni: vogliono arrivare a (controllare) Roma e Mosca».
Durante tutto il periodo di prigionia padre Jacques ha subito interrogatori da parte degli emiri dello Stato islamico. Nei primi giorni, quando ancora non era a conoscenza del fatto che l’Isis avesse preso il suo villaggio, un emiro gli ha fatto insistenti domande sui luoghi cristiani di Qaryatayn: «Ho risposto che abbiamo due chiese, una siriaco ortodossa e una siriaco cattolica e che poi c’è un monastero. “E cosa è questo monastero?” Mi ha chiesto l’emiro. Allora ho pensato che non sapesse quanto fosse importante il monastero per noi cristiani e musulmani di Qaryatayn. Così gli ho detto che era solo un luogo dove avevamo delle terre coltivate. Ho cercato di nascondere quanto è importante… ma loro sapevano tutto».
«Pensavamo che questi dello Stato islamico fossero dei beduini, degli ignoranti, ma non è così – commenta amaramente il sacerdote –. Specialmente quelli venuti dall’estero, tunisini, algerini e iracheni, sono laureati, hanno studiato e sono molto determinati nel raggiungere i loro obiettivi».
Dopo quasi tre mesi di prigionia a Raqqa i miliziani dell’Isis hanno riportato padre Jacques a Qaryatayn: «Per arrivarci siamo passati da Palmira. Trenta chilometri più oltre, la macchina è entrata in un luogo coperto – racconta padre Murad -. Ci hanno fatti scendere e siamo entrati in un locale con una grande porta di ferro. La prima cosa che ho visto sono stati due dei ragazzi cristiani del mio villaggio. Poi, alzando lo sguardo, ho visto tutti gli altri miei cristiani! Sono stati giorni pieni di sofferenza; per me era molto difficile pensare che i miei figli fossero imprigionati, specialmente gli anziani e i disabili. La cosa che mi ha fatto soffrire di più è stato il fatto che, tra gli altri, c’erano anche una donna e un bambino di dieci anni, entrambi malati di tumore. Avevano bisogno di cure particolari, di medicine… e noi pregavamo gli emiri che avevano responsabilità su di noi, perché almeno questi due potessero andare a farsi curare, potessero cercare le medicine… Non hanno mai accolto la nostra richiesta».
«Il 31 agosto, alla fine, sono venuti da me cinque o sei emiri – continua il racconto –. Mi hanno chiamato e io ho avuto paura, ho temuto davvero che mi avrebbero ucciso. Erano venuti per annunciare cosa aveva deciso il califfo per i cristiani di Qaryatayn. Allora mi sono messo una mano sul cuore e ho detto dentro di me: basta. È finita! Invece il califfo ci lasciava scegliere tra quattro possibilità: la prima che gli uomini fossero uccisi e le donne fatte schiave; la seconda che tutti fossero ridotti in stato di schiavitù. La terza era la conversione di tutti all’islam; e la quarta era di accettare la grazia del califfo. La grazia consisteva nel vivere nella terra dell’Isis, pagando una tassa. Tutti hanno scelto questa possibilità. Così gli emiri hanno preso nota dei nomi di tutti i cristiani. Il giorno dopo hanno preso due grandi camion, ci hanno caricato e ci hanno riportato nel nostro villaggio. Ci hanno dato dei documenti con cui potevamo andare ovunque, anche fino a Mosul, nelle terre governate dallo Stato islamico. Quando ho potuto, sono fuggito, per dare anche agli altri cristiani il coraggio di fuggire. Tra i cristiani di Qaryatayn, infatti, ci sono persone che hanno difficoltà a pensare di andare via. Preferiscono morire nella loro terra. E ci sono cristiani che pensano che sia possibile vivere anche sotto l’Isis».