La Siria «non può uscire da sola dalla crisi, la comunità internazionale deve agire». Così il nunzio apostolico a Damasco, mons. Mario Zenari, nei giorni scorsi a Roma. Il diplomatico pontificio invita anche alla prudenza sui rischi di una deriva interconfessionale nel Paese del vicino Oriente ed esorta i cristiani a giocare un ruolo positivo.
(Roma) – La Siria «non può uscire da sola dalla crisi, la comunità internazionale deve agire». Il nunzio apostolico a Damasco, mons. Mario Zenari, che ha partecipato alla Riunione opere di aiuto alle Chiese orientali (Roaco), svoltasi a Roma nei giorni scorsi, invita alla «prudenza» sui rischi di una deriva interconfessionale in Siria: «L’intero Paese è in ebollizione, il sangue scorre dappertutto, ma in Siria non accadrà come in Iraq: mai come oggi sento elogi sui cristiani, che devono avere presente la loro identità e vocazione», dice in questa intervista.
Monsignor Zenari, che idea si è fatto sulla situazione in Siria?
Il ruolo che ricopro mi obbliga alla discrezione sulle mie valutazioni politiche. Ma la mia preoccupazione è soprattutto per la situazione umanitaria: torno a chiedere, facendo eco alle parole del Papa, che si ponga fine alle violenze, che venga riavviato il dialogo per soddisfare le aspirazioni legittime e che sia data assistenza umanitaria alla popolazione.
La rivolta sembra concentrata in alcuni focolai, come Homs, Hama, Hula. Ritiene che le violenze risparmieranno Damasco?
Questo poteva esser vero fino a un mese fa: oggi non è più così. L’intero Paese è in ebollizione, il sangue ormai scorre dappertutto. È come una metastasi. E, se nessuno fa niente, ogni giorno che passa la matassa s’ingarbuglia sempre di più. Ci si è illusi che il presidente Assad potesse far la fine di Ben Ali, o di Mubarak. Ma la Siria non è l’Egitto, non è la Libia e non è neppure lo Yemen.
Che ne è dei tentativi del regime di aprire alle riforme, come quello di indire elezioni aperte ai partiti due mesi fa?
Ormai siamo fuori tempo massimo, non penso che queste misure possano allentare la tensione, perché la popolazione non crede più al presidente: riformare il regime non mi pare più una possibilità realistica. Come ho detto in questi giorni, il Paese sta scendendo verso gli inferi. C’è bisogno che la comunità internazionale trovi una voce sola, non con un intervento militare ma con la diplomazia. Altrimenti c’è il rischio che l’incendio si propaghi all’intera regione.
Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno chiesto al presidente di dimettersi. È realistico che lasci il potere?
Mi sembra un’ipotesi semplicistica pensare che il problema di risolva se al-Assad esce di scena. La Siria è un mosaico di etnie e religioni, nessuno sa cosa potrebbe accadere se si frantumasse. Chi può offrire garanzie alla comunità alawita? Dopo aver dominato per quarant’anni una maggioranza sunnita, gli alawiti si sentono troppo esposti.
Condivide i timori di chi paventa una guerra civile interconfessionale?
I cristiani in Siria vivono una situazione molto diversa da quella della Chiesa in Iraq, in Egitto, in Giordania e anche da quella in Turchia. Non fasciamoci la testa prima di essercela rotta e andiamoci piano prima di paventare la sindrome dell’Iraq. La Siria ha una tradizione di convivialità fra cristiani e musulmani, e lanciarci in allarmismi ingiustificati potrebbe essere controproducente. Le faccio un esempio concreto: il Paese oggi è disseminato di check-point, tanto dell’esercito quanto dei cosiddetti ribelli. E in tutti questi mesi non c’è stato un solo caso in cui mi sia stato riferito che qualcuno abbia torto un capello a un cittadino cristiano. Mentre so che altri cittadini sono stati brutalmente assassinati solo perché membri della comunità avversaria. Come cristiani siamo rispettati, con la nostra presenza e le nostre istituzioni.
Eppure non sono mancate alcune aggressioni nei mesi scorsi…
Occorre valutare caso per caso: la cattedrale di Homs è stata distrutta nei bombardamenti come il resto della città. In alcuni casi vi sono stati episodi di banditismo, oppure vendette nel caso in cui la popolazione, stretta fra due fuochi, abbia dato aiuto agli uni piuttosto che agli altri… Posso dire che, per quanto i cristiani siano, a torto o a ragione, considerati vicini al governo, non ci sono stati attacchi contro i cristiani in quanto tali. Alcuni dei miliziani, anzi, hanno fatto giungere assicurazioni che mai toccherebbero una chiesa. Perciò, anche se può darsi che la mia visione si discosti da quella prevalente, continuo a invitare alla prudenza e a ripetere che dobbiamo lavorare e seminare il bene.
A suo avviso quindi i cristiani non stanno finora prendendo parte alla rivolta?
Ci sono pressioni da una parte e dall’altra perché prendano le armi, ma quel che ripetiamo ai giovani è di non farsi manipolare. Anche alcuni musulmani li stanno consigliando in tal senso: «A voi cristiani non conviene la lotta armata, tenetevi fuori da questa guerra che riguarda altre due comunità e non voi…». Credo che sia un consiglio saggio. Il che non vuol dire stare alla finestra a guardare, ma rimboccarsi le maniche e riscoprire innanzitutto il nostro impegno nel sociale: la promozione di tutti gli esseri umani indipendentemente dalla religione e dall’etnia, l’uguaglianza dei cittadini, la parità fra uomo e donna, lo Stato di diritto con la separazione fra fede e Stato che in parte in Siria già c’è, almeno in nuce, il rifiuto della violenza e la scelta del dialogo. Questa è la vocazione dei cristiani, il senso della nostra missione. Posso dire che non ho mai sentito così tanti elogi per i cristiani come oggi: penso a persone che vengono considerate autentici uomini e donne di Dio.
Secondo lei che atteggiamento dovrebbero tenere i cristiani di fronte alla dittatura e alla lotta che dilania il Paese?
Io credo che si possa guardare a quello che sta avvenendo in Siria come alla doppia faccia di una medaglia: accanto all’angoscia, al dolore per la perdita di tante vite umane e all’interrogativo su cosa ne sarà dei cristiani, c’è l’altra faccia, che è quella dell’opportunità che ci viene offerta per far scoprire cosa è realmente il cristianesimo e per costruire una nuova Siria. Molti musulmani pensano ai cristiani orientali con le loro liturgie: questa tragedia in Siria è forse l’occasione per mostrare che il cristianesimo è innanzitutto servizio alla gente, ai più bisognosi e sofferenti, ed è un vanto pensare che oggi molti cristiani siriani siano riconosciuti dai loro concittadini come fiori nel deserto per il coraggio e la generosità che stanno mostrando nel darsi da fare sotto le bombe per salvare vite umane. Per questo continuo a dire: non lasciamoci sopraffare dall’angoscia, fino a farci tarpare le ali per la paura di quel che può accadere, visto che da quel che vedo oggi i cristiani non verranno mai cacciati dal Paese come è accaduto in Iraq. Domani magari verrò smentito dai fatti, ma il domani si prepara già oggi: cerchiamo di preparare un domani meno traumatico, con la presenza cristiana e con la nostra vocazione cristiana che è quella di costruire dei ponti.
Che aiuto ha chiesto alla Roaco per la Siria?
Ho lasciato all’arcivescovo caldeo di Aleppo, mons. Antoine Audo, presidente della Caritas siriana, di stilare il doloroso elenco dei bisogni umanitari della popolazione. Personalmente mi sono soffermato sul problema del disarmo: e non mi riferisco solo a quello materiale. È vero che la Siria in questi mesi è stata sommersa dalle armi, ma a mio avviso a lungo termine il problema non sarà solo ritirare le armi: la sfida sarà estirpare i semi dell’odio dal cuore delle persone, per i massacri e le torture che hanno subìto o ai quali hanno assistito. Come guarire queste ferite psicologiche e spirituali? Io credo che sia necessario formare operatori che possano intervenire in tal senso, perché per ricostruire la concordia e la solidarietà sociale in Siria dopo questi 15 mesi, ammesso che si esca a breve termine da questa guerra, ci vorranno anni. Le organizzazioni umanitarie cattoliche devono prepararsi a mandare agenti che possano aprire il cuore delle vittime di queste violenze, molti purtroppo giovanissimi, e disinnescare questi esplosivi conficcati nei cuori, che possono costituire una pesante ipoteca sul futuro della Siria.