Una conversazione con Nemer Hammad, consigliere politico del presidente Abu Mazen. Il diplomatico, incontrato a Ramallah in Cisgiordania, ci spiega perché l'Autorità Nazionale Palestinese ha deciso di ricorrere all'Onu chiedendo che il prossimo settembre l'Assemblea generale si pronunci sul nascente Stato di Palestina.
A Ramallah nel quadrilatero della Mukata (la residenza del presidente palestinese, attaccata e quasi rasa al suolo al tempo di Arafat da un raid israeliano) fervono i lavori. Accanto al cubo di vetro e pietra che custodisce la salma del «padre della Palestina», è già stata terminata una piccola moschea. Un progetto da 10 milioni di dollari, sponsorizzato dal governo giapponese, prevede la costruzione, oltre al palazzo presidenziale, della caserma per la guardia d’onore e di un eliporto.
Nemer Hammad, per 27 anni rappresentante in Italia dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), è attualmente consigliere politico del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Ed è una delle figure che, a livello internazionale – proprio mentre il governo palestinese frutto dell’accordo tra Fatah e Hamas stenta a nascere – sta tessendo la trama di quella che sembra essere la nuova risposta politica di Ramallah al conflitto con Israele: la richiesta di riconoscimento alle Nazioni Unite dello Stato palestinese.
«Il nostro presidente – spiega Hammad ricevendoci nel suo ufficio presso il palazzo presidenziale – ha intenzione di recarsi a settembre alle Nazioni Unite per reclamare i diritti legittimi del popolo. Come è stato creato lo Stato di Israele? Grazie alla risoluzione 181 dell’Assemblea generale dell’Onu. E allora con che diritto gli israeliani si permettono di dire che la nostra richiesta per la creazione di uno Stato palestinese è un’azione unilaterale? In realtà sono le colonie e la trasformazione geografica della Palestina a costituire azioni unilaterali. Quindi a settembre ci presenteremo al tribunale del mondo, le Nazioni Unite, per chiedere se il nostro popolo ha diritto o meno ad avere uno Stato».
Quindi il processo di pace tra Israele e Palestina è «congelato».
Tutt’altro. Noi siamo disponibili a riprendere in qualsiasi momento da dove siamo arrivati con Ehud Olmert. Dopo la conferenza di Annapolis avevamo raggiunto un accordo, presenti oltre 50 Paesi del mondo, che prevedeva di negoziare sulla base di alcuni principi: due Stati per due popoli; la fine dell’occupazione e il ritorno nei confini del 1967; scambio di territori per sanare la situazione degli insediamenti che nel frattempo sono diventate città. Sul versante sicurezza, si era stabilita una presenza di forze d’interposizione internazionale sui nuovi confini.
Nel frattempo però il governo in Israele è cambiato…
Con l’arrivo di Benjamin Nethanyau le cose sono decisamente cambiate, anche se il segretario di Stato Hillary Clinton ha cercato da subito di favorire più incontri tra Netahnyau e Abu Mazen. Ma tutte le volte che il nostro presidente ha fatto riferimento agli accordi che già erano intercorsi dopo Annapolis con Olmert, Nethanyau ha risposto che la sicurezza d’Israele viene prima di tutto. Secondo il primo ministro, viste le relazioni con i Paesi confinanti e le recenti turbolenze del mondo arabo, l’esercito israeliano deve rimanere schierato sul Giordano e l’Autorità Palestinese non deve avere nessuna giurisdizione sulle frontiere. Fuori discussione l’abbandono delle basi militari israeliane nei Territori. Gli insediamenti, nella sua visione, rientrano nel discorso della sicurezza d’Israele. Devono restare per quarant’anni, come elemento di controllo del territorio.
Con l’arrivo di Obama, le speranze erano che la nuova amministrazione americana riuscisse a far ripartire su basi nuove il processo di pace.
Negli Stati Uniti c’è una lobby ebraica che blocca qualsiasi amministrazione americana. Nella mia lunga carriera diplomatica ho toccato con mano questa verità più volte. Ho incontrato molti esponenti americani sinceramente intenzionati a sbloccare la nostra situazione, consapevoli delle difficoltà del popolo palestinese… Ma poi, le pressioni sul Congresso hanno sempre vinto.
Eppure la pace resta l’unica soluzione…
Siamo in una situazione paradossale. Gli israeliani stanno dicendo che dobbiamo tornare ai negoziati. Noi siamo pronti, ma vorremmo sapere sulla base di che cosa. Se Nethanyau ogni giorno decide nuovi insediamenti, come dobbiamo fare? Torniamo ai negoziati, ma vogliamo sapere se Israele rispetta gli accordi precedentemente raggiunti. In verità, noi abbiamo questa sensazione: possiamo dire qualunque cosa, arrivare a qualsiasi conclusione. Ma poi, nel nome della sicurezza, Israele si sente autorizzato a fare qualsiasi cosa sul terreno. Proprio per questa ragione noi vogliamo ricorrere alle Nazioni Unite.
Cosa pensate di ottenere?
Israele è nata sulla base di una risoluzione delle Nazioni Unite, che prevedeva la nascita di due Stati. Quando Israele fece il suo ingresso all’Onu (con la Conferenza di Losanna apertasi il 27 aprile 1949; il 12 maggio la Commissione Onu di conciliazione in Palestina fece siglare alle parti un protocollo di pace nel quale Israele accettava il principio del rimpatrio dei profughi e dell’internazionalizzazione di Gerusalemme – ndr) si è impegnata in forma scritta a rispettare il diritto del popolo palestinese ad avere un proprio Stato. Visto che gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno accettato la nascita dello Stato d’Israele sulla base di una spartizione che doveva dare origine anche ad uno Stato palestinese, vogliamo sapere se questo diritto a una nostra patria permane o meno. Ben inteso: oggi le condizioni sono molto diverse, perché resta poco più del 20 per cento di quello che doveva essere il nostro territorio.
Quale rispondenza credete di poter avere alle Nazioni Unite?
Sappiamo bene che gli Stati Uniti possono bloccare il riconoscimento nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, ma in questo caso Washington dovrà prendere atto di essere isolata rispetto alla maggioranza dei Paesi nel mondo. Stiamo lavorando per un’adesione la più ampia possibile alle nostra richiesta in Assemblea generale. Speriamo di poter ottenere, su 192 Paesi, il voto favorevole di 165. Comunque vada, speriamo si possa aprire una fase nuova nella nostra storia.
—
(Clicca qui se vuoi leggere i commenti all’intervista da parte dell’ambasciata israeliana presso la Santa Sede)