Quest'oggi, 28 maggio 2012, l’Assemblea degli ordinari cattolici della Terra Santa ha pubblicato una dichiarazione «in margine agli episodi avvenuti il 23 maggio a Tel Aviv». Quel giorno la più importante città costiera di Israele è stata teatro di azioni intimidatorie nei confronti dei profughi africani che popolano uno dei quartieri cittadini. Ambienti politici di destra hanno soffiato sul fuoco del malcontento popolare.
«Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io ascolterò il suo grido, la mia collera si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani» (Esodo 22, 21-23). Non sono parole di tutti i giorni quelle che l’Assemblea degli ordinari cattolici della Terra Santa ha messo come epigrafe alla sua dichiarazione «in margine agli episodi avvenuti il 23 maggio a Tel Aviv».
Che cos’è capitato? Nella zona sud della grande città costiera israeliana – nei quartieri dove si concentra in maggior numero la presenza degli immigrati sudanesi ed eritrei – si è scatenata una vergognosa caccia all’africano. Il tutto è avvenuto al termine di una manifestazione organizzata dalla destra contro la presenza dei clandestini. E dopo che dal palco una parlamentare del Likud – Miri Regev – aveva gridato che gli immigrati illegali sono «un cancro da estirpare». Ci sono stati immigrati assaliti, bambini africani terrorizzati, auto distrutte. E in molti con coraggio in Israele non hanno avuto paura di utilizzare la parola pogrom per condannare questi episodi. A rendere l’idea del clima che circonda oggi questi immigrati basta dare un’occhiata a un video postato su YouTube e rilanciato dal quotidiano Yediot Ahronot. Si intitola Sagi colpisce un sudanese con un uovo ed esattamente questo mostra: un israeliano che scende dalla macchina e scaglia un uovo contro un africano reo semplicemente di passare di lì in bicicletta.
«Noi, Ordinari cattolici di Terra Santa, alziamo un grido di angoscia e di sofferenza in seguito agli episodi di violenza perpetrati nei confronti di chi è arrivato in Israele chiedendo asilo politico in fuga dalla guerra, dalla violenza, dalla fame e dalla miseria – scrivono i presuli nel loro appello che vale la pena di leggere per intero -. Parliamo sia come uomini, particolarmente preoccupati perché residenti in Terra Santa, sia come pastori del nostro gregge, dal momento che molte vittime di questi attacchi sono cristiani».
C’è un problema razzismo, dunque, oggi in Israele? E – se sì – come è nato? Credo che questa seconda sia la domanda più importante. Perché le responsabilità dei politici in questa vicenda sono pesanti. Intanto vale la pena di dare l’ordine di grandezza di questo fenomeno: un dato citato da Arutz Sheva, che non ha certo l’interesse a fornire stime prudenti, parla di 25 mila clandestini africani a Tel Aviv. L’area metropolitana del Gush Dan – di cui Tel Aviv è il centro – conta 3 milioni di abitanti. Checché se ne dica il problema vero non è tanto il numero, ma lo status di queste persone. Che scappano da Paesi in guerra (il Sudan) o segnati da gravi violazioni dei diritti umani (l’Eritrea). Israele – nonostante sia un Paese firmatario della convenzione sui rifugiati – non intende riconoscere loro l’asilo politico. Il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman in persona ha detto qualche giorno fa che «secondo il diritto internazionale» i sudanesi possono essere rimandati in patria. Il che evidentemente fa a pugni con la storia di Israele, per cui le sue finora sono rimaste solo parole.
Solo che nel frattempo – non avendo uno status riconosciuto – questi africani non possono lavorare. Per di più sono tollerati dalla polizia solo nell’area intorno alla stazione centrale degli autobus di Tel Aviv, che si è così trasformata in un ghetto e dove (guarda un po’) aumentano i furti nelle case. Che questa situazione sia insostenibile è evidente, ma il ministro dell’Interno Eli Yishai e alcuni esponenti della destra la cavalcano, inasprendo il problema. A porre un freno a una soluzione umanitaria che permetta di restare in Israele almeno a quelli che ormai vi si trovano da tempo, gioca la solita fobia degli equilibri demografici che potrebbero alterare l’identità ebraica di Israele. Insomma: anche questi cristiani del Sudan che con il conflitto con i palestinesi non c’entrano proprio nulla, alla fine ne pagano le conseguenze.
Proprio per questo, però, è importante segnalare che c’è anche un altro Israele: quello che dice no all’intolleranza nei confronti degli africani. Nel quartiere di Tel Aviv al centro delle polemiche alcune ong sono andate a festeggiare con i bambini sudanesi Shavuot, la festa ebraica che cade a cinquanta giorni dalla Pasqua. Con loro – racconta il blog +972 – hanno letto il libro di Ruth, la pagina biblica probabilmente più forte sull’accoglienza allo straniero. Una pagina che Israele non può permettersi oggi di dimenticare.
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