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Dopo l’attentato di Alessandria d’Egitto

Giuseppe Caffulli
3 gennaio 2011
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Dopo l’attentato di Alessandria d’Egitto
La strada su cui s'affaccia la chiesa copta di Al-Qiddissin, ad Alessandria d'Egitto, poco dopo l'attentato.

Il nuovo anno, per i cristiani del Medio Oriente, è iniziato nel segno della violenza che ha caratterizzato il 2010. Un tragico filo rosso lega la strage della chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso a Baghdad (31 ottobre 2010) con il sanguinoso attentato del primo gennaio scorso ad Alessandria d’Egitto. Qualche considerazione.


(Milano) – Il nuovo anno, per i cristiani del Medio Oriente, è iniziato nel segno della violenza che ha caratterizzato il 2010. Un tragico filo rosso lega la strage della chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso a Baghdad (31 ottobre 2010) con il sanguinoso attentato del primo gennaio scorso all’esterno della chiesa copta di Al-Qiddissin ad Alessandria d’Egitto, nel quale sono state uccise 21 persone.

Sulla stampa internazionale si parla con sempre maggiore insistenza di «cristianofobia» e di una strategia per colpire i cristiani. Anzi, per espellerli direttamente e definitivamente dal Medio Oriente. E probabilmente di vera «strategia» si tratta, come ha di recente denunciato anche Benedetto XVI.

Per capire però quali fini persegua questa strategia, non possiamo non considerare i differenti contesti nei quali essa si colloca. Immaginare che ci sia una «mente», in qualche città o in qualche rifugio segreto, capace oggi di indirizzare le forze jiadhiste appare suggestivo, ma forse poco realista.

Nessun Bin Laden, nessun «grande imam», ma piuttosto un arcipelago di fazioni ciascuna con il proprio obiettivo e la propria missione, unite – questo sì – dall’ideologia dell’islam globale militante: cioè da un disegno politico che mira a instaurare nei rispettivi Paesi un potere autocratico strumentalizzando il nome di Dio. E in questo grande gioco i cristiani diventano le vittime di chi vuole alzare il livello dello scontro, far esplodere le contraddizioni interne alle società mediorientali e nordafricane, seminare sangue e terrore per poi offrire la soluzione: quella appunto dello Stato islamico, visto come antidoto alla deriva occidentale che propugna i diritti della persona, la libertà di culto e religione, la democrazia…

Un caso eclatante è l’Egitto, che vede mescolati nella sua storia moderna il richiamo a una identità nazionale figlia del socialismo nasseriano che ha fatto da collante per diversi decenni, ma anche il cancro del fondamentalismo politico di matrice islamica (qui sono nati in Fratelli musulmani; alla Jihad islamica appartenevano i responsabili dell’uccisione del presidente Anwar Sadat nel 1981) e la violenza settaria nei confronti dei cristiani copti.

Nonostante che la Costituzione del Paese riconosca ai cittadini uguali diritti e doveri, proprio i cristiani sono oggetto di continue discriminazioni e attentati. Solo nel 2008 ce ne sono stati 26; nel 2009 oltre 50. Il 2010, nella ricorrenza del Natale copto (7 gennaio), si è avviato nel segno del sangue, con la strage di Nag Hammadi, nel sud del Paese.

Non è un caso che in questo clima di tensione interna, sempre più giovani cristiani seguano la via dell’emigrazione verso l’Occidente: sono ormai molto consistenti le comunità copte in Europa e nelle Americhe.

Ma possiamo davvero dire che l’obiettivo dei fondamentalisti islamici sia «solo» la cancellazione della componente cristiana del Paese, circa 7 milioni di persone su una popolazione di circa 80 milioni?

L’obiettivo dei fondamentalisti islamici è sicuramente quello di alzare il livello dello scontro con l’Occidente, che pigramente si sta rendendo conto della necessità di tutelare le minoranze cristiane presenti in Medio Oriente, ma soprattutto appare quello di far implodere lo Stato egiziano, creando un clima di scontro aperto tra la componente cristiana e quella musulmana. Le giuste richieste di parte della consistente minoranza copta per una maggiore tutela e per il pieno esercizio dei diritti previsti dalla costituzione finirebbero per essere bollate una volta di più come una «ingerenza» dell’Occidente in un contesto culturale che non avverte (o teme) la necessità di maggiori libertà e democrazia. Non è questo, in fondo, il senso delle parole dell’imam di Al Azhar – lo sceicco Ahmed El-Tayeb – di fronte all’appello di Benedetto XVI in favore dei cristiani copti d’Egitto?

A poche settimane dalle elezioni parlamentari nel Paese (28 novembre-6 dicembre 2010), che hanno di fatto estromesso la componente islamista dalla scena politica, e con lo spauracchio della successione – sempre più problematica – di Hosni Mubarak alla guida del Paese, alle forze fondamentaliste quella dello scontro interno – sulla pelle dei cristiani – può sembrare una carta tragicamente conveniente da giocare.

Se da una parte noi cristiani d’Occidente dobbiamo porre con rinnovata forza la questione della tutela delle minoranze cristiane e della libertà religiosa nei Paesi del Medio Oriente, d’altra parte non dobbiamo cadere nella trappola di chi vuole fomentare uno scontro tra civiltà i cui esiti non possono che essere traumatici.

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