Il numero di luglio-agosto 2010 del bimestrale Terrasanta, ospita un'intervista di Cristina Uguccioni al pastore Paolo Ricca. Tra le personalità più in vista del protestantesimo italiano, per conto dell'Alleanza riformata mondiale ebbe modo, tra le altre cose, di seguire il concilio Vaticano II come giornalista. Anni dopo compì il suo unico viaggio in Terra Santa. E ne tornò amareggiato...
Il numero di luglio-agosto 2010 del bimestrale Terrasanta, ospita un’intervista di Cristina Uguccioni al pastore Paolo Ricca. Tra le personalità più in vista del protestantesimo italiano, Ricca fu consacrato pastore della Chiesa valdese nel 1962. Per conto dell’Alleanza riformata mondiale ha avuto la ventura, tra le altre cose, di seguire il concilio Vaticano II come giornalista accreditato. Proprio grazie alla stampa, anni dopo, è avvenuto il suo primo incontro con la Terra Santa: «Si trattava di un viaggio organizzato dalla rivista Confronti, un mensile particolarmente attento al rapporto tra cristiani, ebrei e musulmani, che organizza diverse iniziative di incontro e confronto». Da qui prende le mosse l’intervista di cui vi offriamo ora alcuni stralci.
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Pastore Ricca, quale impressione riportò da quel viaggio?
Abbiamo avuto numerosi incontri dai quali, purtroppo, ho ricavato questa impressione: difficilmente le due parti in conflitto arriveranno alla pace vera: è triste doverlo dire, ma è così. Sono rientrato in Italia molto amareggiato, con la sensazione che per israeliani e palestinesi – a causa di molteplici ragioni, dalle quali non bisogna escludere quella religiosa, che di solito viene lasciata in ombra – sarà estremamente arduo convivere nella medesima terra: durante quel viaggio non ho intravisto la possibilità di creare la situazione che tutti auspicano, cioè una sorta di «condominio» pacifico in cui abitino insieme ebrei e palestinesi. Questo «condominio» è fonte perenne di violenze, contestazioni, liti, odio, che sostanzialmente impedisce una soluzione pacifica e soprattutto equa. Ripeto, sono amareggiato, anche se naturalmente spero di sbagliarmi, ma tutto ciò che sta accadendo conferma l’impressione che ebbi allora.
Qual è stata la sua impressione osservando la presenza cristiana?
Gli aggettivi attribuiti a questa terra, definita «santa», costituita da luoghi «sacri», sono a mio parere smentiti da taluni comportamenti dei religiosi cristiani là presenti: le gelosie, l’accanimento con cui difendono confini e metri quadrati, il senso della proprietà contraddicono, secondo me, lo spirito di Cristo, che possedeva nulla e non aveva dove posare il capo. La spartizione e la difesa dei luoghi di Cristo da parte delle varie confessioni cristiane non offre ai miei occhi una testimonianza convincente di ecumenismo.
Tutti sono attratti da Gerusalemme: qual è a suo avviso il luogo simbolo di questa città?
Gerusalemme ha un fascino unico, smuove emozioni profonde. Il luogo simbolo, per me, è il sepolcro vuoto. Di per sé questo è un segno ambiguo perché può significare quello che in primis i discepoli hanno pensato, ossia che avessero portato via il corpo di Gesù: quindi il sepolcro vuoto è una testimonianza in negativo che non basta a fondare la fede nel Risorto, però costituisce l’inizio di questa fede. La fede per diventare tale ha bisogno dell’incontro con Cristo Vivente nella Parola e nello Spirito.
Paolo VI definiva la Terra Santa «il quinto Vangelo», molti pastori e fedeli sostengono che conoscere con tutti i propri sensi i luoghi della vita di Gesù – facendosi accompagnare dalla sua Parola e dalla celebrazione dell’Eucaristia – li aiuta a capire cosa sia l’incarnazione…
Poter collocare geograficamente un personaggio storico è sempre importante ed è bello poterlo fare. A maggior ragione nel caso di Gesù: ripercorrere i luoghi della vita aiuta a interiorizzare le sue parole, a farle scendere in profondità. Se leggo le beatitudini e poi posso ricordare la collina da cui Gesù le ha pronunciate questo sicuramente mi aiuta a interiorizzarle. Però vivere questa esperienza non è indispensabile per il cammino di fede: il cristianesimo, a differenza dell’islam, non impone ai fedeli l’obbligo del pellegrinaggio ai luoghi sacri.
Aggiungo una considerazione: san Francesco d’Assisi, nell’epoca delle crociate, quando i cristiani si muovevano in armi verso la Terra Santa, inventò il presepe. Il presepe si potrebbe definire «l’alternativa» alle crociate perché, in fondo, ti dice: non hai bisogno di andare a Betlemme, puoi rivivere la natività di Gesù nell’aia della tua casa.
Naturalmente se poi una persona mi chiede consiglio, io le suggerisco sempre di andare in Palestina perché vivrà un’esperienza toccante e penso che un viaggio del genere possa aiutare a ricuperare l’umanità di Gesù: ce n’è bisogno.
Ritiene sia necessario ricuperare anche l’ebraicità di Gesù?
Direi proprio di sì. La tentazione per noi cristiani è sempre quella di voler cristianizzare Gesù trascurando o sottovalutando la sua ebraicità. Ricuperare il Gesù storico significa non solo ricuperare la sua umanità nel senso che dicevo poc’anzi, ma anche il fatto che lui era ebreo.
Sarebbe importante che nei viaggi in Palestina venisse curato con attenzione anche questo aspetto, evitando forzature, evitando cioè di attribuire al cristianesimo ciò che in realtà appartiene all’ebraismo e alla sua storia. Su questo fronte noi cristiani abbiamo bisogno di lavorare ancora molto.