Si parla tanto in questi giorni - e giustamente - del rapporto Goldstone, il rapporto presentato al Consiglio Onu dei diritti umani sulla guerra di gennaio a Gaza, in cui vengono rivolte gravi accuse a Israele. Quello però che si rischia di dimenticare è che non stiamo affatto parlando di una vicenda conclusa. Il problema Gaza resta in tutta la drammaticità delle sue contraddizioni. Alcuni articoli ci aiutano a capirlo.
Si parla tanto in questi giorni – e giustamente – del rapporto Goldstone, il rapporto presentato al Consiglio Onu dei diritti umani sulla guerra di gennaio a Gaza, in cui vengono rivolte gravi accuse a Israele. Quello però che si rischia di dimenticare è che non stiamo affatto parlando di una vicenda conclusa. Il problema Gaza resta in tutta la drammaticità delle sue contraddizioni. Alcuni articoli ci aiutano a capirlo.
Intanto partiamo dalla cronaca di queste ore: ormai per i nostri giornali non fa più notizia, ma a Gaza si spara ancora. Oggi Arutz Sheva, l’agenzia vicina ai coloni israeliani titola: «Una mini operazione Piombo fuso». Si tratta certamente di un’esagerazione da parte di chi vuole dare l’idea di un governo israeliano forte che reagisce. Però è un fatto che i lanci di razzi Qassam sono ripresi e che da due giorni l’aviazione israeliana sta bombardando massicciamente i tunnel sotterranei che collegano la Striscia all’Egitto. Dunque la situazione è esattamente la stessa che c’era alla vigilia del conflitto sanguinoso di cui parla il rapporto Goldstone. Eppure nell’agenda della politica internazionale nessuno parla più di Gaza. Questo è un fatto grave. Non ci stancheremo di ripeterlo: non ci può essere un processo di pace vero in Medio Oriente finché si accantona la questione di Gaza, in attesa di tempi migliori. Perché poi arriva il giorno che un razzo Qassam colpisce una scuola, uccidendo dei bambini, e si scatena di nuovo l’inferno.
Secondo aspetto: è importante accertare la verità su quanto accaduto a Gaza in gennaio. Ma ancora più importante è sbloccare i troppi vincoli che ancora rendono impossibile un’assistenza degna di questo nome alla vittime. L’agenzia palestinese Maan ha pubblicato un reportage agghiacciante su coloro che hanno perso un arto a causa dell’ultimo conflitto. Il dottor Hazem Ash-Sawwa, del Gaza City’s Artificial Limb and Polio Center, spiega che – a causa del blocco – è tuttora un problema trovare i materiali per le protesi. Su Haaretz, invece, Amira Hass cita un rapporto di Physicians for Human Rights, l’associazione di medici israeliani che si batte per i diritti dei pazienti palestinesi: dice che fra gennaio e agosto 2009 sono state presentate 3.758 richieste di permessi di ingresso in Israele da Gaza attraverso il valico di Erez legati ad appuntamenti medici fissati in strutture israeliane. Appuntamenti ottenuti dopo una lunga trafila e non certo assegnati a cuor leggero. Bene: in 1.310 casi i pazienti sono stati costretti a fissare un nuovo appuntamento, perché il permesso non è arrivato in tempo. Una volta su tre, dunque, neanche la cooperazione sanitaria sui casi più gravi funziona. E il rapporto mostra bene che il dato non è legato solo al mese di gennaio, quello del conflitto: è un problema che va avanti anche adesso.
Se la situazione non fosse così tragica ci sarebbe da sorridere leggendo un’ultima notizia che appare oggi sui quotidiani israeliani (noi la rilanciamo dal Jerusalem Post). Nel mondo ebraico siamo alla vigilia della festa di Sukkot, che per tradizione viene celebrata erigendo nel cortile di casa una capanna con rami di palma. Quest’anno, però, In Israele c’è un problema: i grossisti egiziani che riforniscono gli importatori di questi rami di palma hanno fatto cartello e hanno alzato i prezzi, scatenando una rivolta tra gli ebrei religiosi. Così il ministro per gli Affari Religiosi ha avanzato una richiesta al ministro della Difesa affinché si possano importare i rami di palma di Gaza, che sono molto più economici. Permesso che Ehud Barak ha prontamente accordato. Dunque Sukkot è salva. E il blocco economico «fondamentale per la sicurezza nazionale» in questo caso non è più importante.
L’ennesima contraddizione di Gaza. Dove – intanto – si continua a morire.
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