«Le relazioni tra la Chiesa cattolica e lo Stato d'Israele erano migliori quando la Santa Sede non aveva rapporti diplomatici con il governo israeliano». Lo dice senza mezzi termini mons. Pietro Sambi, nunzio apostolico negli Stati Uniti dal dicembre 2005, dopo aver rappresentato il Papa per alcuni anni a Gerusalemme. Il presule osserva che Israele non ha fin qui tenuto fede agli impegni assunti nel 1993 con la firma dell'accordo che portò all'apertura delle relazioni diplomatiche con la Sede pontificia. E con una punta di amarezza aggiunge: «È sotto gli occhi di tutti quale fiducia si possa accordare alle promesse d'Israele!». Nostra intervista esclusiva.
Monsignor Pietro Sambi è nunzio apostolico negli Stati Uniti dal 17 dicembre 2005, oltre che Osservatore permanente della Santa Sede presso l’Organizzazione degli Stati Americani. Dal 1971 al 1974 ha lavorato presso la delegazione apostolica di Gerusalemme. Nel 1998 è ritornato in Israele come nunzio apostolico. La città santa, i luoghi che per primi hanno conosciuto la Salvezza, la situazione dei cristiani in Medio Oriente, il lavoro della Chiesa locale e le relazioni tra Stato d’Israele e Santa Sede – anche ora che lavora negli Stati Uniti – non smettono di essere al centro degli interessi di mons. Sambi. Che così spiega questa sua attenzione particolare: «Chi non c’è stato non può capire. Gerusalemme ti entra sotto la pelle, diventa parte di te».
L’abbiamo incontrato qualche giorno fa presso la nunziatura apostolica di Washington, dove ha volentieri accettato di rispondere alle nostre domande.
Monsignor Sambi, le relazioni tra Santa Sede e Stato d’Israele subiscono spesso contraccolpi, specie a causa del mancato procedere dei lavori della Commissione bilaterale che dovrebbe portare a termine la definizione dell’Accordo Fondamentale siglato nel 1993. Qualche giorno fa, l’ennesimo nulla di fatto. Avendo seguito a lungo queste vicende, come vede lei la situazione attuale?
Se devo essere franco, le relazioni tra la Chiesa cattolica e lo Stato d’Israele erano migliori quando non c’erano i rapporti diplomatici. La Santa Sede ha deciso di stabilire i rapporti diplomatici con Israele come un atto di fiducia, lasciando a promesse impegnative di regolare più tardi gli aspetti concreti della vita delle comunità cattoliche e della Chiesa. Il 30 dicembre 1993 è stato firmato l’Accordo Fondamentale il quale, oltre a prevedere lo stabilimento dei rapporti diplomatici, comanda anche che vi sia un Accordo giuridico, firmato nel 1997 e mai entrato in vigore sul territorio israeliano, e un Accordo economico che deve toccare soprattutto tre argomenti: le proprietà della Chiesa ingiustamente espropriate o sottoposte a ingiusta servitù; i servizi che la Chiesa rende alla popolazione israeliana, sia essa di origine ebraica o palestinese: ad uguale servizio deve corrispondere uguale compenso, come per le istituzioni statali; la questione delle tasse. Per la questione delle tasse, la Santa Sede chiede una cosa semplice e naturale: ciò che è avvenuto durante gli ultimi tre secoli, ciò che Israele ha promesso al momento della sua indipendenza nel 1948, ciò che è sottinteso con la firma dell’Accordo giuridico, ciò che di fatto avviene fino a questo momento in materia di esenzione di tasse per le istituzioni religiose cristiane, sia cristallizzato giuridicamente in un accordo di valore internazionale. Ora, c’è una strana situazione: gli accordi già firmati, quello Fondamentale e quello Giuridico, sono validi internazionalmente, ma non sono validi in Israele, perché la legge israeliana rende obbligatoria l’approvazione della Knesset perché un accordo valido internazionalmente diventi valido sul territorio israeliano. E l’approvazione della Knesset nessuno ha avuto la preoccupazione di chiederla. L’Accordo economico, dopo quasi dieci anni di trattative rese inutili da rinvii degli incontri da parte della delegazione israeliana, da mancanza di poteri della medesima nelle trattative, in una parola per assenza di volontà politica, non è stato ancora firmato. È sotto gli occhi di tutti quale fiducia si possa accordare alle promesse d’Israele!
Il problema dei visti per il personale religioso cattolico era di più facile soluzione quando non esistevano i rapporti diplomatici tra la Santa Sede ed Israele.
Cosa possono fare oggi il nunzio negli Usa e la Chiesa che è in America per far sbloccare la situazione? C’è una situazione di stallo molto preoccupante…
La fiducia non si compra al mercato; si consolida con il rispetto degli accordi firmati e con la fedeltà alla parola data. Negli Stati Uniti si fa tutto il possibile perché pressioni siano esercitate nella giusta direzione. Israele ha già troppe difficoltà con troppi Paesi. Sembra insipido volerne creare altre anche con gli amici.
Lo stallo attuale nelle trattative pare misterioso non solo alla Santa Sede, al mondo cristiano e a tanti Paesi amici d’Israele, ma anche a molti ebrei, siano essi onorabili cittadini d’Israele o di altri Paesi.
La ragione spesso fornita da Israele per giustificare le lungaggini è stata la priorità da dare alla sicurezza. Certo, ogni Stato ha il dovere prioritario di difendere i propri cittadini. La sicurezza, dice la logica, si accresce aumentando il numero dei Paesi amici e diminuendo quello dei nemici. Un detto rabbinico, che cito a memoria, dice che il generale più valoroso non è quello che travolge il nemico, ma che sa trasformare il nemico in amico!
Siamo a poche settimane della prevista Conferenza di Annapolis, che sembra stentare a trovare una sua strada e una sua fisionomia… Un eventuale fallimento non potrebbe avere conseguenze ancora più negative sul quadro mediorientale?
Hanno certamente torto quelli che dicono che la pace è impossibile e quindi incrociano le braccia. Chiunque faccia qualcosa per rendere la pace possibile è da apprezzare. Quale sarà il risultato della Conferenza? Vi sarà una Conferenza internazionale sulla pace in Medio Oriente? L’augurio è che vi sia e che dia i migliori risultati. Se questi non ci fossero, significa solo che bisogna subito ricominciare da capo e tentare nuove vie. L’ultima parola non può essere lasciata al conflitto. Solo la pace ha il diritto all’ultima parola.
La situazione degli iracheni in fuga dal proprio Paese – e dei cristiani in particolare – sta diventando uno dei capitoli più dolorosi e drammatici del Medio Oriente oggi… Come vive la Chiesa americana questa tragedia?
Si cerca di farlo presente continuamente questo gravissimo problema. Vi sono Paesi come la Siria e la Giordania che sono al limite delle possibilità per la grande quantità di immigrati che ricevono dall’Iraq. È una tragedia nata da quella guerra. Sbalordisce il silenzio dell’opinione pubblica internazionale su questa immane tragedia. Mi consta che la Conferenza episcopale degli Stati Uniti e i suoi organismi umanitari siano fortemente impegnati nel portare soccorso, non solo ai cristiani dell’Iraq, ma a tutti i rifugiati di quel Paese, quale che sia la loro fede. La mia esperienza attraverso il mondo mi ha mostrato che il rifugiato è l’essere umano nelle condizioni più deboli: non ha più nulla di suo, neppure l’aria che respira.